Del: 30 Ottobre 2017 Di: Redazione Commenti: 0

Foto scattate dalla redazione 

Costanza Motta

Il fatto che ieri ci sia stato un tramonto mozzafiato è ormai quasi Patrimonio dell’Umanità, il tutto nel giro di nemmeno ventiquattro ore. Come sia stato possibile che anche mia zia, che per lavoro è a New York e a quell’ora si trovava nel pieno mezzogiorno, lo abbia saputo, è sotto gli occhi di tutti: nel momento stesso in cui il primo osservatore è rimasto incantato dallo spettacolo naturale, questo era già stato immortalato e diffuso su quell’immensa finestra globale che è internet e soprattutto l’internet dei social network.

Cosa significa tutto ciò? Si potrebbe anche lasciar passare in sordina l’evento, visto che per una volta il tam-tam telematico ha riguardato qualcosa che potremmo definire una “messa in circolo della bellezza”. Tuttavia, dal momento che siamo polemisti per natura e vocazione, è bene cogliere la palla al balzo per una breve riflessione antropologica sulla nevrosi della condivisione social-mediatica.

Siamo tutti schiavi del condividere: anche io, viaggiando in treno verso Milano, sono stata rapita dall’accendersi dell’incendio celeste. Fin qui non c’è nulla di male, se non che dopo un attimo di struggimento ed incanto con Quasimodo in sordina nella memoria, ecco la mano mefistofelica muoversi quasi automaticamente verso il cellulare: scatto-invio-condivisione.
Dopo poco, si palesa la malattia del tutto: no, non era stato fatto semplicemente per riempire il web di immagini della potenza della Natura, ma per avere una sorta di upgrade nella scalata della social-fame. Perchè sì, ammettiamolo, quando postiamo un’immagine quel che più ci preme è il numero di consensi (cfr. likes) che otteniamo da essa. Ecco, mentre anche la mia personale dipendenza mi spingeva a controllare se la fotografia era stata apprezzata e da chi, la parte ancora sana di me mi faceva notare che nel giro di un minuto miriadi di immagini come la mia avevano intasato le homepage di Facebook ed Instagram con una rapidità inaudita: ognuno con lo stesso desiderio di mostrare al mondo quando bello era il suo tramonto, che in realtà era lo stesso per tutti.
Da qui il giro di volta è breve: perché siamo spinti a comportarci così? Mentre si guardava il cielo dallo schermo, nel cielo sopra i nostri nasi i colori cambiavano con la rapidità che solo le albe e i tramonti conoscono. Noi, però, si rimaneva fissi su quell’unico istante immortalato in eterno dalla fotocamera.
Sembra banale o fuori luogo appellarsi al principio del divenire eracliteo, o panta rhei, per cercare di trovare una risposta ad un dramma contemporaneo.

Eppure in fin dei conti la radice del problema non è altro che questa: in un presente dove tutto corre e passa ad una velocità disarmante, nella così detta società liquida, l’essere umano ha uno spasmodico bisogno di fermare il tempo in un eterno presente.

Poichè questo non è fisicamente possibile nella realtà, ha trovato a sua disposizione quale bacchetta magica, il mondo parallelo della fotocamera digitale e della condivisione social: vivere in un istante cristallizzato, o meglio in una serie di istanti cristallizzati, che devono essere il più stupefacenti possibili, al fine di alimentare la memoria ― singola e pubblica ― di ricordi che non siano scivolosi come il tempo in cui si è immersi. Ecco dunque la smania della fotografia, lo scatto ossessivo-compulsivo di qualsiasi cosa ci sembri “bella”.
Così l’uomo si illude di sopravvivere allo scorrere del tempo, ammantando la sua esistenza di una parvenza di eternità. Ma il tramonto è anch’esso un passaggio da uno stato all’altro: dalla luce al buio. Non a caso Monet, che voleva fermare la luce, ha dipinto miriadi di ninfee in serie, perchè ogni minuto, ogni mutazione della luce, cambiava il loro aspetto. Non esiste nulla di immobile in Natura, e l’essere umano non fa eccezione.

Ma c’è un altro punto critico nel dramma della nevrosi da social-network, forse più cocente del primo. Ovvero la stringente necessità che spinge il singolo a condividere col mondo la propria vita, non solo pubblica, ma anche ― e soprattutto ― privata. Appare evidente che il potere dei social è quello di mettere in contatto persone lontane, altrimenti costrette a perdersi nel mare delle distanze o del malservizio postale. Da questo nobile intento all’abuso o cattivo-uso del social il passo è breve (il cambiamento delle relazioni personali, l’ossessione per l’immagine, lo sdoppiamento identitario).

Nell’istante stesso in cui tutti abbiamo condiviso i nostri tramonti non abbiamo creato una rete sociale, ma abbiamo invece isolato e personalizzato qualcosa che, se ciò non fosse avvenuto, era meravigliosamente già di tutti.

Certo, si potrebbe ribattere che tutto ciò è davvero Troppo rumore per nulla. In effetti, stando all’analisi razionale dei fatti, per una volta la manìa di condivisione ha riguardato la bellezza del cielo d’Italia: un inno alla potenzialità paesaggistica del nostro Bel Paese. Non si nega: se tutto ciò sarà sfruttato per slogan progresso o per smuovere coscienze riguardo quello che potrebbe essere il patrimonio ambientale di questo angolo di mondo, allora ne sarà valsa davvero la pena. Ma non sentiamoci speciali per aver condiviso bellezza, sentiamoci speciali, piuttosto, se e quando ne saremo parte attiva.
Se poi, i social network, hanno davvero il potere di diffondere una notizia in presa diretta nel giro di pochi minuti (anche secondi), invece di farne un uso personale per mettere in vetrina quanto sia meravigliosa la vita personale del singolo (perchè, al di là dei mantelli di ipocrisia, è a questo che serve la condivisione della maggior parte delle fotografie), si potrebbe davvero lavorare su spazi di co-working, netkorking, reti sociali mediatiche.
Ma la spinta ad individualizzare gli spazi e le esperienze è il male della solitudine che affligge l’uomo post-moderno: essere globali non significa quasi mai essere meno soli. Allora anche i versi di Quasimodo, probabilmente ispirati ad un tramonto simile a quello di ieri, assumono in tutta la pienezza il loro malinconico e tragico significato:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
Trafitto da un raggio di sole:
Ed è subito sera.

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