Del: 5 Novembre 2017 Di: Sheila Khan Commenti: 0

Si dice sindrome di Stendhal quella serie di sintomi psicofisici che si manifestano in una persona durante la contemplazione di opere artistiche di straordinaria bellezza. Chiamata anche sindrome di Firenze (dal nome della città in cui la sindrome ricorre più spesso), si manifesta con capogiri,vertigini, allucinazioni, tachicardia e, a volte, svenimenti.

La sindrome viene descritta per la prima volta da Stendhal, nel suo diario di viaggio Roma, Napoli e Firenze: «Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere.»

Dario Argento si è ispirato alla sindrome per girare nel 1996 un meraviglioso horror psicologico dal titolo La sindrome di Stendhal: nel film la giovane poliziotta Anna Manni (interpretata da Asia Argento) indaga su una serie di stupri tra Roma e Firenze, e sviene contemplando La caduta di Icaro di Bruegel. Durante la prima fase della sindrome diventa un tutt’uno con il quadro, con le acque blu dipinte e con il cielo, e dopo lo svenimento avrà un sogno (o un’allucinazione?) in cui, nel fondo del mare, bacia un grosso pesce, prima di essere soccorsa da Alfredo.

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È molto romantico e suggestivo pensare che un’opera d’arte possa condurci all’estasi mistica. Ma quanto c’è di vero in tutto questo?

I primi studi scientifici sulla sindrome di Stendhal vengono condotti dalla psichiatra fiorentina Graziella Magherini nel 1977, che descrisse 106 casi di turisti stranieri venuti in visita a Firenze e che avevano manifestato sintomi psicofisici riconducibili alla sindrome di Stendhal. Approfondendo il caso, però, la psichiatra trovò numerose caratteristiche comuni tra i soggetti colpiti: disturbi del contenuto e della forma del pensiero con intuizioni e percezioni deliranti associate a disturbi delle senso/percezioni con allucinazioni uditive, fenomeni illusionali; altri presentavano disturbi di alterazione affettiva, ossia un umore orientato in senso depressivo con contenuti olotimici di colpa e di rovina o, viceversa, in senso maniacale con euforia e manifestazioni di estasi. Altri ancora manifestavano sintomi riferibili agli attuali criteri diagnostici per il disturbo di panico, con crisi acute di ansia libera o situazionale. Data questa premessa è difficile ascrivere i sintomi a uno specifico disturbo psichiatrico; risulta più sensato, invece, ricollegarsi a più tradizioni (psicoanalitica e neuroscientifica) per darsi una spiegazione della sindrome.

Graziella Magherini cerca di dare un’interpretazione psicanalitica alla sindrome di Stendhal. Partendo dalle teorie freudiane sul conflitto edipico, la psichiatra estrae una formula per spiegare il rapporto tra fruitore e opera d’arte: Fruizione artistica = Esperienza estetica primaria madre-bambino + Perturbante + “Fatto scelto” + “F”, dove per esperienza estetica primaria madre-bambino è inteso il primo incontro del bambino con il volto, i seni e la voce della madre, rispecchiando così anche il primo rapporto con l’estetica ed il primo contatto con la bellezza; il perturbante, concetto ripreso da Freud, consiste in un’esperienza conflittuale passata rimossa, molto significativa da un punto di vista emotivo che ritorna prepotentemente attiva nel momento in cui avviene l’incontro con l’opera d’arte e in particolar modo con il “Fatto Scelto”, ossia un particolare dell’opera sul quale la persona concentra tutta la sua attenzione, che richiama alla mente particolari vissuti personali e, quindi, conferisce all’opera quel particolare e personale significato emozionale responsabile, secondo Magherini, dello scatenamento della sintomatologia psichica.

Negli anni ‘90 le ricerche sulla sindrome di Stendhal assumono nuove prospettive: sono infatti gli anni in cui si scopre il ruolo fondamentale dei neuroni-specchio nella fruizione artistica. Questi neuroni sono responsabili dell’attivazione di determinate aree del cervello che portano il fruitore a uno stato di empatia inconscia e pre-riflessiva con l’opera d’arte e, nei soggetti con una spiccata sensibilità artistica ed emotiva, anche con le intenzioni dell’autore. È proprio questa simulazione incarnata che genera nel fruitore tutti i sintomi sopracitati.
Secondo la tradizione interdisciplinare della neuroestetica, invece, il nostro cervello non è solo solo visivo, ma anche creativo e, ogni volta che guardiamo un’opera d’arte, non solo la contempla, ma a sua volta crea una nuova opera, mutuata dalla nostra sensibilità, dalle nostre esperienze e dalle nostre esigenze comunicative. Ed è proprio questa ansia creativa che genera i disturbi psicosomatici descritti per la prima volta da Stendhal.

Queste teorie lasciano poco spazio a una spiegazione fantastica sulla fruizione dell’arte: non esiste una vera e propria emozione estetica.

Spiegare scientificamente l’insorgere di un’emozione, però, non elimina il valore e la bellezza intrinseca dell’opera d’arte. Pittura, scultura e architettura continueranno a emozionarci come hanno sempre fatto. La sindrome di Stendhal si presenta sempre in soggetti dotati di una grande sensibilità emotiva e artistica e se questa è davvero la causa dell’insorgere dei sintomi, la predisposizione alla sindrome costituirebbe una grande fortuna per tutti.

Sheila Khan

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