La Repubblica di Catalogna proclamata dal parlamento regionale il 27 ottobre è durata meno di tre giorni. Già il 29 ottobre il suo presidente Carles Puigdemont e quattro ministri si erano rifugiati a Bruxelles per sfuggire alla prevedibile reazione della procura spagnola dopo l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione, ordinata dal primo ministro Rajoy per destituire l’intero governo catalano. Infatti, il 31 ottobre la procura chiedeva che Puigdemont fosse processato per sedizione, il 2 novembre otto ex ministri erano sottoposti a custodia cautelare e il 3 novembre il governo emetteva un mandato d’arresto europeo nei confronti di Puigdemont. Due giorni dopo l’ex presidente e i ministri che l’avevano seguito in Belgio si sono consegnati alla polizia, che li ha subito rimessi in libertà in attesa di decidere se estradarli o meno in Spagna. Nel frattempo, per il 21 dicembre sono state convocate da Madrid le elezioni anticipate.
Gli aspetti giuridici e politici finiscono però in secondo piano davanti alla situazione sociale in cui è precipitata la Catalogna, dove si susseguono continuamente manifestazioni e cortei di protesta. Lo scrittore basco Fernando Aramburu, autore nel 2016 del best-seller Patria, ha dichiarato a “L’Espresso”: «Il clima sociale è molto polarizzato. Alcuni che fino a ieri erano amici, oggi non si salutano a causa delle loro diverse convinzioni politiche. Altrettanto accade in numerose famiglie. Molta gente preferisce non parlare di politica. Nelle strade della Catalogna aleggia l’ombra di una tragedia collettiva.»
Ma come si è giunti a questa tragedia collettiva? Non era possibile evitarla, in qualche modo?
La Vanguardia, uno dei principali quotidiani conservatori spagnoli, ha raccontato come Puigdemont abbia cercato fino all’ultimo di evitare la proclamazione dell’indipendenza. Dopo il referendum dell’1 ottobre che il presidente catalano aveva deciso di celebrare nonostante la pronuncia negativa della Corte Costituzionale e la dichiarata avversione del governo di Rajoy, la situazione si era quasi cristallizzata, nell’attesa dell’intervento europeo invocato a più riprese da Puigdemont e mai arrivato, e nel timore che i continui ultimatum lanciati dal governo di Madrid potessero avere conseguenze concrete. Il presidente catalano era consapevole del pericolo che il governo applicasse l’articolo 155 immediatamente dopo un’eventuale dichiarazione di indipendenza. Dalla sua cella, il leader dell’Assemblea nazionale catalana (Anc) Jordi Sànchez aveva avvisato Puigdemont delle conseguenze nefaste che avrebbe avuto la scelta indipendentista. A quel punto Puigdemont poteva ancora evitarla, convocando magari le elezioni anticipate. Molti leader catalani erano consapevoli non solo della portata storica di una dichiarazione d’indipendenza, ma anche delle immediate necessità logistiche che avrebbe comportato: controllo dell’ordine pubblico, dei confini e dei centri nevralgici delle comunicazioni, dei trasporti e dell’amministrazione. Perché una dichiarazione d’indipendenza abbia una concreta attuazione sono fondamentali le primissime ore. Lo sanno bene gli stessi catalani: quando nell’ottobre 1934 dichiararono unilateralmente l’indipendenza, l’immediata proclamazione dello stato di guerra e il tempestivo intervento dell’esercito spagnolo bloccarono sul nascere la nuova Repubblica. Paradossalmente, anche allora il primo effetto pratico dell’intervento di Madrid fu la sospensione dello Statuto di Autonomia della Catalogna.
Nei giorni immediatamente precedenti al 27 ottobre Puigdemont ha provato a trattare con il governo di Rajoy, ma non ha ricevuto garanzie sufficienti. Nonostante ciò, era comunque deciso a non proclamare l’indipendenza. Poi la situazione è precipitata: i membri più radicali del suo stesso governo e l’indipendentismo militante che continuava a riempire le piazze di Barcellona hanno costretto Puigdemont a cedere. Subito dopo la dichiarazione di indipendenza giunta nel pomeriggio del 27 ottobre Madrid ha fatto scattare l’articolo 155 e ha destituito l’intero governo, prendendo contestualmente il totale controllo dell’ordine pubblico.
Puigdemont si è così ritrovato vaso d’argilla tra l’indipendentismo radicale catalano e l’intransigenza di Madrid.
Non ha avuto vie d’uscita e ha preso una decisione nefasta. La sua dichiarazione d’indipendenza, tanto storica quanto effimera, ha avuto come uniche conseguenze il disgregarsi quasi immediato del fronte indipendentista e l’allontanarsi della concreta prospettiva di uno Stato indipendente.
Ad oggi la situazione è paralizzata e non si sa ancora se Puigdemont e i suoi ministri saranno estradati in Spagna. Inoltre, in vista delle elezioni catalane i principali partiti del fronte per l’indipendenza non hanno raggiunto un accordo per formare una coalizione unitaria, anche a causa delle frizioni emerse prima del 27 ottobre.
Come ha notato Manuel Vázquez Montalbán, uno dei più grandi scrittori catalani del secolo scorso: «La Storia non ha cuore, e neppure cervello». La dimostrazione è arrivata chiaramente dalla Catalogna, che vivrà mesi di paralisi politica e incertezza istituzionale molto pericolose, e dal suo ex presidente Carles Puigdemont, costretto a proclamare un’indipendenza che avrebbe preferito non proclamare, nemesi del se stesso che aveva cocciutamente deciso di effettuare il fatale referendum del primo ottobre.