Del: 2 Novembre 2017 Di: Enrico Bozzi Commenti: 1

Il 13 ottobre a Milano e in oltre 70 città italiane gli studenti delle scuole superiori hanno manifestato pubblicamente contro il programma di alternanza Scuola-Lavoro, introdotto dalla Riforma della Buona Scuola proposta dal segretario del Partito Democratico Matteo Renzi e approvata dal suo stesso governo nel luglio 2015. Entrata ora ufficialmente in vigore per tutti gli studenti degli ultimi tre anni delle scuole superiori, l’esperienza obbligatoria ha suscitato non poche perplessità.

A Milano oltre 5mila ragazzi si sono mobilitati, partendo dal tradizionale punto di ritrovo di Largo Cairoli per concludere il corteo in Piazza Castello, attraversando tutto il centro cittadino. Un piccolo gruppo di manifestanti ha nondimeno imbrattato la Camera di Commercio in Via Meravigli, un McDonald’s e un negozio della celebre catena d’abbigliamento Zara. Infine, una ventina di persone hanno assaltato la sede del PD in Corso Garibaldi, scatenando vere e proprie scene di rivolta urbana.

Ma in cosa consiste il programma di alternanza Scuola-Lavoro? Definita dal Ministero dell’Istruzione come «una delle innovazioni più significative della Legge 107 del 2015 (La Buona Scuola)», prevede in maniera obbligatoria per tutti gli studenti degli ultimi tre anni di scuola superiore un monte ore variabile (400 ore negli istituti tecnici e professionali, 200 nei licei) di apprendistato gratuito presso imprese, aziende, associazioni sportive e di volontariato, negozi, enti culturali e ordini professionali. L’obiettivo dichiarato è quello di formare professionalmente gli studenti, per non gettarli impreparati nel mondo del lavoro che li aspetta al termine degli studi. L’accusa mossa alla riforma, supportata il più delle volte dai fatti, è quella di fornire manodopera gratuita alle aziende.

Secondo i manifestanti, inoltre, le attività svolte durante l’alternanza non costituirebbero concretamente un’esperienza formativa.

Il 48% degli studenti, secondo un sondaggio condotto dal sito scuolazoo.com, si ritiene profondamente insoddisfatto dall’alternanza, sottolineando in particolare gli accordi stretti dal Miur con giganti internazionali che poco o nulla hanno a che fare con la reale formazione che la scuola dovrebbe dare ai propri studenti (come appunto McDonald’s o Zara).
Abbiamo raccolto le testimonianze di chi ha vissuto in prima persona questa esperienza, per raccontarvi ciò che funziona e ciò che non funziona affatto di questo programma.

Francesca, 18 anni, diplomata quest’estate in un liceo linguistico lombardo, ci racconta la sua recente esperienza:

Abbiamo lavorato in una scuola elementare (che abbiamo dovuto trovare noi singoli studenti, senza ricevere aiuto dalla dirigenza scolastica), dalle 9:00 alle 16:30 per una settimana, e per i restanti 4 mesi 2 ore a settimana durante il pomeriggio. La mia mansione? Non fare niente. Nulla di nulla. Sono rimasta mesi a fissare il muro, al massimo ho chiacchierato con alcune maestre. La premessa era quella che, essendo studenti di lingue straniere, avremmo affiancato il docente di inglese o quella di italiano. In realtà io non ho mai affiancato nessuno, alcune mie compagne invece avevano il compito di seguire alcuni bambini affetti da autismo, senza aver ricevuto alcuna preparazione ad un ruolo tanto delicato. In linea generale, penso che se in linea col proprio percorso di studi l’alternanza possa essere parte di una formazione, un’introduzione al mondo del lavoro, ma così come l’ho fatta io è solo una perdita di tempo.

Giovanni, 20 anni, è stato invece uno dei primi a sperimentare la riforma:

Ho avuto la mia prima esperienza nel 2015, ero in quarta superiore. Ancora non era ben delineata, ma era previsto nel mio percorso di studi uno stage non retribuito presso un’azienda pubblica, un ente pubblico o un libero professionista. Io ho lavorato in un noto ospedale del milanese, nell’ufficio amministrazione. Ho passato il mio tempo sempre nella stessa postazione con un lavoro particolarmente monotono, mi chiedevano di sistemare, controllare e compilare fatture ricevute o inviate da altre aziende. Poche volte ho cambiato mansione, giusto qualche ora davanti al PC per gestire meglio il lavoro e guadagnare un po’ di tempo, il tutto con una dipendente che mi seguiva quando ne avevo necessità. Mi sono ritrovato fortemente a contatto con la realtà lavorativa: a darmi gli ordini era il capo ufficio, una persona severa che ci teneva però a far rispettare le regole e a controllare che andasse tutto bene. Ho lavorato 7 ore al giorno, dalle 9:00 alle 16:00, con meno di un’ora per la pausa pranzo. Nonostante non abbia ricevuto neppure il rimborso per la mensa, sono contento di aver intrapreso questa esperienza. A 17 anni sentivo parlare di lavoro, di quanto fosse duro e in alcuni casi frustrante, mi è servito per capire tante cose. Ho provato sulla mia pelle una parte della vita che effettivamente mi mancava.

Miriam, 17 anni, studentessa di un liceo classico, non è però altrettanto convinta:

L’anno scorso, in terza, ho avuto un’esperienza a dir poco inutile, senza mansioni, senza compiti. Normalmente si dovrebbe fare qualcosa per avere un primo approccio alla futura realtà lavorativa. Questo è il concetto chiave che sta dietro alla riforma, non è completamente sbagliato, ma non viene concretizzato affatto bene. Non so neppure se chiamarla alternanza Scuola-Lavoro, ci hanno portato in un’università a seguire delle lezioni teoriche sul funzionamento burocratico degli atenei. Non è un’esperienza totalmente superflua come sento uscire dalle bocche di molti coetanei e da persone anche più grandi di me, ma dico che hanno sbagliato a introdurla nel percorso obbligatorio per concludere gli studi.

Anna, 16 anni, ci riassume, infine, la sua tumultuosa vicenda:

Verso la fine della terza superiore tutta la classe iniziò a cercare un luogo dove fare questo stage. Ho frequentato un professionale fotografico, quindi la tattica era scrivere mail a studi fotografici o fotografi veri mentre si bussava porta a porta ai negozi di fotografia.
Credo che a nessuno di noi sia andato bene il primo metodo, mentre il secondo è stato ancora più tragico: ricordo pomeriggi deprimenti in cui entravo e uscivo dai negozi della mia città e quelle vicine sentendo solo rifiuti, chiedevo di lavorare gratis e la gente mi mandava via. Eravamo tutti disperati, non sapevamo dove sbattere la testa. A scuola i professori ci terrorizzavano dicendo che non facendo le ore obbligatorie non avremmo potuto accedere alla quarta ma nel frattempo non ci aiutavano per nulla a capire come trovare qualcosa.
Per fortuna dopo aver girato tutta la provincia di Varese e parte di Milano ho avuto l’illuminazione: il negozio dove avevo comprato la mia prima macchina fotografica e vari accessori aveva chiuso, ma il nipote del proprietario possedeva un altro negozio dove, oltre a lui, lavorava la madre che mi aveva conosciuta nel precedente negozio. Insomma, alla fine ottenni un posto dove fare lo stage. Come moltissimi negozi di questo genere non era solo fotografia ma anche ottica e telefonia. Fortunatamente decise di farmi occupare solo di ciò per cui stavo studiando.
Nonostante non fossi esageratamente fuori tempo ho dovuto fare delle corse incredibili per i moduli che il mio istituto avrebbe dovuto fornire per l’alternanza, ma alla fine ci sono riuscita. La scuola era finita, ero stata promossa senza debiti, ed ero pronta a passare un mese dell’estate dei miei 16 anni a fare fototessere! In tutto questo, però, ho insegnato ad usare Photoshop al mio capo. Strano eh, non avrei dovuto imparare io qualcosa?

Enrico Bozzi
Social Media Manager, studente di Scienze Umanistiche per la Comunicazione, apprendista stregone, aggiustatutto, tuttofare. Mi piace bere Negroni e darmi un tono.

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