Del: 10 Gennaio 2018 Di: Michele Pinto Commenti: 0

La mucca nel corridoio, tanto testardamente evocata negli ultimi anni da Pier Luigi Bersani, forse era proprio Silvio Berlusconi, l’ex Cavaliere, l’ex caimano, l’ex Papi. Da giaguaro a mucca, la metamorfosi è durata poco, appena cinque anni di una legislatura, la diciassettesima, tra le più pazze della storia repubblicana. Iniziata con la clamorosa rimonta alle elezioni del 2013, proseguita con le larghe intese di Enrico Letta, prima fortissimamente volute e poi abbandonate dopo la condanna per frode fiscale nel processo Mediaset (per i suoi pasdaran l’ennesimo golpe del ventennio), continuata con l’esclusione dal Senato, i servizi sociali con gli anziani di Cesano Boscone, il Patto del Nazareno, l’operazione al cuore, le diete dimagranti e le foto in Autogrill, infine terminata con le trattative per la costruzione del nuovo centro-destra con Salvini e Meloni. Centro-destra, beninteso, grande favorito delle elezioni politiche di marzo.

Come sia possibile che Berlusconi rimanga ancora al centro della scena politica italiana, dopo 24 anni della cosiddetta “guerra civile fredda” — berlusconiani contro antiberlusconiani — è un bel mistero.

Non solo: il 2018, a quanto pare, sarà per lui un anno luminoso, con il ritorno al Governo e nelle stanze del potere. Già nei primi giorni dell’anno nuovo è arrivata una grossa sorpresa. Bill Emmott, che più di quindici anni fa firmò l’iconica copertina del The Economist “Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy”, ha parlato dell’ex Cavaliere come di un possibile salvatore politico dell’Italia.
Lui stesso, del resto, ha cercato negli ultimi mesi, a partire almeno dalla campagna referendaria del dicembre 2016, di costruirsi l’immagine di vecchio statista, interessato alla stabilità del Paese, alla sua permanenza nell’Unione Europea e alla sua tenuta economica. Come intendesse poi declinare concretamente questa nouvelle vogue berlusconiana si è presto visto: neanche il tempo di iniziare la campagna elettorale e già dispensava dentiere e pensioni a mille euro, detrazioni per gli animali domestici e abolizioni roboanti di tasse successorie e bolli auto. E non potendo direttamente guidare il governo a causa della legge Severino, faceva infuriare Salvini annunciando ministri, presidenti del Consiglio e squadre di governo già pronte.
Resta tuttavia inconfutabile la funzione che Berlusconi, forse persino involontariamente, ha assunto nel panorama politico italiano: elemento di stabilità, più che di destabilizzazione (come fu, invece, nel 1994); elemento di certezza, più che di incertezza; elemento di sistema, più che di antisistema. Pare un paradosso, ma è così. Berlusconi, nato politicamente come campione del populismo — “l’Italia è il Paese che amo…” —  rischia di terminare la sua parabola come elemento integrante del sistema italiano. Così ormai larghe fette di elettorato percepiscono l’ex Cavaliere, e persino a latitudini insospettabili: tra Berlusconi e Di Maio, il vero pericolo è Di Maio. Il portabandiera di questo nuovo orientamento, che miete adesioni da destra a sinistra, è stato il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari, che a Giovanni Floris ha detto chiaramente:

A chi affiderei il governo del Paese, dovendo scegliere tra Berlusconi e Di Maio? Sceglierei Berlusconi.

Scalfari è stato il primo, ha rotto l’argine. Ma non è certo il solo, e le parole di Emmot lo dimostrano. Così come lo dimostra il recente riavvicinamento di Berlusconi al Ppe e ad Angela Merkel. Alcuni hanno interpretato queste dichiarazioni in senso conservativo: salvare il sistema per salvare l’Italia. Ma forse vi è qualcosa di più profondo. Di fronte all’incompetenza grillina, alla nebulosità renziana, alla fragorosa dissoluzione del centro-sinistra e all’isteria salviniana, Berlusconi rappresenta un approdo conosciuto, un’àncora rassicurante. Non sono poi molto lontani i tempi in cui Marco Travaglio compilava lunghi elenchi di leggi-vergogna che il centro-destra berlusconiano approvava verosimilmente al solo scopo di salvare il Cavaliere dai processi e di aumentare il fatturato delle sue aziende. Eppure un nuovo sentimento di indulgenza, in effetti storicamente abbastanza diffuso nel nostro Paese, investe gli animi di commentatori ed elettori, almeno a quanto dicono i sondaggi.
La verità è che Berlusconi è stato sdoganato non oggi, ma alcuni anni fa. Ha appoggiato il governo Monti, e poi il governo Letta, nel quale vi erano ministri del Pdl. In virtù del suo consenso elettorale, innegabile, è stato abbattuto quel muro — culturale, morale, sociale, giudiziario — che divideva in origine i berlusconiani dal resto del Paese.
In questa storia di paradossi l’antinomia più straordinaria è certamente quello strano volgersi delle cose:

Berlusconi oggi cammina tra le macerie di un Paese spossato, al netto dei dati economici incoraggianti, che lui più di chiunque altro ha contribuito a creare. E si propone di raggiustarle, quelle macerie.

Dopo tre elezioni vinte (1994, 2001 e 2008), quattro governi, decine di alleanze celebrate e poi sconfessate (Bossi, Casini, Fini, Alfano…), dopo i contratti con gli italiani, i “cucù”, le barzellette e le canzoni napoletane, dopo gli scandali e i processi, dopo gli editti bulgari e le telefonate alle trasmissioni televisive, Berlusconi è ancora vivo. Politicamente, s’intende. E in questo 2018 che ci ha consegnato un mondo clamorosamente berlusconizzato (l’America trumpiana su tutto), si prepara a battezzare una nuova inedita fase dell’uomo politico: il post-sé stesso. Dopo Berlusconi, c’è ancora Berlusconi. Per il centro-destra, per l’Italia e, a quanto sembra, persino per l’Europa.

Michele Pinto
Studente di giurisprudenza. Quando non leggo, mi guardo intorno e mi faccio molte domande.

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