
Simone de Beauvoir nasce a Parigi il 9 gennaio 1908 e non è mai stata, nella sua vita, una ragazza per bene, nonostante il primo tomo della sua autobiografia dica il contrario. Scrittrice, saggista, filosofa, femminista, è stata una delle figure più imponenti e importanti del XX secolo, al fianco del suo compagno – mai sposato, per ribellione al sistema – Jean-Paul Sartre. Studentessa prodigio all’École Superieure Nationale, si laurea con lode in filosofia, acquisendo anche la licenza a insegnare, concessa solo ai migliori studenti universitari francesi. I suoi studi, il suo vissuto, il suo amore e le sue conoscenze, in una Parigi della metà del Novecento, la portano alla stesura della sua opera forse più conosciuta e sicuramente la più impegnata dal punto di vista femminista: Le deuxième sexe, il secondo sesso, pubblicato a Parigi per Gallimard nel 1949.
«La donna libera – dice de Beauvoir nel saggio – sta nascendo solo ora»: attraverso lo studio del passato e del ruolo della donna prima del tempo della scrittrice, Simone de Beauvoir analizza ogni minimo aspetto della vita della donna e come, a suo parere, essa sia stata influenzata dalla mentalità maschile e maschilista dei secoli precedenti. Immergendosi in pieno clima novecentesco, analizza uno dei punti di vista più importanti e suggestivi, quello analitico.
De Beavoir parte dall’assunto filosofico di base della psicanalisi psico-fisiologica, e cioè che «l’immenso progresso della psicanalisi […] consiste nel ritenere che nessun fattore venga a far parte della vita psichica senza rivestire un significato umano; il corpo-oggetto descritto dagli scienziati non esiste nel concreto, ma solo esiste nel corpo sperimentato dal soggetto». La donna, quindi, è femmina nella misura in cui ella si sperimenta come tale. Non è la natura che definisce la donna, ma è lei che si definisce rielaborando in sé la natura, secondo i propri moti affettivi.
Ma Simone non si ferma solo a una mera definizione, tenta anche – brillantemente – di rispondere a Freud.
Secondo lei, il fondatore della Psicanalisi non si è molto preoccupato del destino della donna, ma ne ha semplicemente ricalcato la descrizione su quella del destino maschile. La sua risposta decisa non è solo a Freud, ma anche al sessuologo Maranon che, ben prima di lui, aveva dichiarato che «in quanto energia differenziata, si può dire che la libido è una forza virile. Altrettanto dicasi dell’orgasmo». Secondo lui, quindi, le donne che raggiungono l’orgasmo sarebbero “viriloidi”, senza contare che «lo slancio sessuale ha un’unica direzione e la donna è a metà strada». Il problema che evidenzia de Beauvoir, tornando a Freud, non è che egli sostenga la medesima tesi – egli infatti non arriva a tali estremi – ma che non ne faccia speciale oggetto di esame: «La libido ha in modo costante e regolare un’essenza maschile, sia che appaia nell’uomo che nella donna». Egli rifiuta di considerare la libido femminile nella sua originalità, mettendo in luce un fatto che prima di lui nessuno aveva evidenziato con così tanta enfasi: «L’erotismo maschile si localizza definitivamente nel pene, mentre nella donna si hanno due distinti sistemi erotici, uno clitorideo che si sviluppa durante la fase infantile, e l’altro vaginale che ha inizio solo dopo la pubertà». Mentre per l’uomo la tappa sessuale è una sola – la pubertà si conclude con il passaggio dall’atteggiamento autoerotico, nel quale mira al piacere puramente soggettivo, a un atteggiamento eteroerotico che riferisca il piacere a un oggetto – la donna deve affrontare due tappe, che comportano il rischio di non toccare il pieno sviluppo sessuale e di restare imprigionata nell’infanzia e, di conseguenza, sviluppare una nevrosi (Freud non sembra essersi allontanato troppo dalla Londra ottocentesca dell’isteria).
Ne nasce, inevitabilmente, un complesso di inferiorità, che prende la forma del rifiuto, pieno di vergogna, della sua femminilità.
Non è dunque solo “l’invidia del pene” a provocare tale complesso, ma tutto l’insieme della situazione: «La bambina invidia il fallo in quanto simbolo dei privilegi accordati ai maschi». Come può, allora, la donna ritrovare l’equivalente del pene? In un bambino. Solo attraverso la maternità può farlo. Senza contare che l’amore sessuale – poiché la donna soffre del cosiddetto “complesso di Elettra” – si accompagna in lei al desiderio di essere dominata.
A differenza di adleriani e freudiani, Stekel invece sostiene che l’angoscia della donna di fronte al sesso maschile sia «l’inversione di un desiderio vano: la donna avrebbe paura della deflorazione, della penetrazione, della gravidanza, del dolore, e questa paura terrebbe a freno il desiderio».
Ma Simone de Beauvoir non si accontenta di queste spiegazioni, da lei ritenute erronee: «Come non è sufficiente dire che la donna è femmina, così non si può definirla secondo la coscienza ch’ella prende della propria femminilità: ne prende coscienza in seno alla società di cui fa parte». Ed è proprio la società a sollecitarla a presentarsi in due modi, entrambi costretti, che la portano inevitabilmente all’alienazione. L’uno, in cui “gioca a fare l’uomo”, che per lei sarà fonte d’insuccesso; l’altro, in cui “gioca a fare la donna”, in cui sarà vanamente l’oggetto del desiderio dell’Altro.
Ma per Simone de Beauvoir la donna è altro: «Per me la donna è un essere umano che cerca i suoi valori in un mondo di valori, di cui è indispensabile conoscere anche la struttura economica e sociale». La donna non è angoscia, invidia del pene, civetteria e libido a metà.
Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.