Del: 30 Gennaio 2018 Di: Barbara Venneri Commenti: 0

Il 2018 non è solo l’anno delle elezioni nazionali e regionali. Per la Statale quest’anno significa anche la scelta di un nuovo Rettore  eletto dai professori di ruolo, ricercatori, personale tecnico-amministrativo e dai rappresentanti degli studenti membri dei principali organi di governo  che succederà a Gianluca Vago, in carica dall’ottobre del 2012.
Anche se non ancora formalmente, sono già state annunciate le candidature per il prossimo mandato nelle figure di Maria Pia Abbracchio, professoressa dal Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari, Giuseppe De Luca, professore dal Dipartimento di Economia e già prorettore delegato alla Didattica e, infine, il professor Elio Franzini dal Dipartimento di Filosofia. Il 29 gennaio nell’Aula Magna della Statale, i tre candidati si sono già confrontati in un dibattito, organizzato da R.S.U, che verteva sulla questione del trasferimento ad Expo delle Facoltà che ora risiedono in Città Studi.

Dal luglio 2016, quando era stata formalizzata la manifestazione di interesse, sull’argomento non si sono registrati cambiamenti sostanziali: l’idea nasce come soluzione all’inadeguatezza tecnologica e alla carenza di servizi degli spazi di Città Studi, per i quali una ristrutturazione risulterebbe molto più dispendiosa rispetto alla creazione di un nuovo polo a Rho. Il trasferimento, invece, costerebbe 380 milioni di euro, dei quali solo 130 verrebbero forniti dalla Regione, mentre il resto dovrebbe essere stanziato dalla Statale stessa e, forse, dalla vendita degli immobili di Piola.

La professoressa Abbracchio, appoggiata su questo punto anche dal prorettore De Luca, mette subito in luce gli innegabili vantaggi del trasferimento in un polo più tecnologico: «Là potremmo disegnare un vero e proprio campus dove tutti gli spazi sono utilizzati, dove non c’è dispersione di spazi (…), dove ci sarà sicuramente nel lungo termine un abbattimento dei costi di esercizio (…).» Il problema della dispersione degli spazi  che, tra l’altro, vive pure parte di Studi Umanistici  sembra essere essenziale poiché costituisce un ostacolo alla «possibilità di interazione che a Città Studi non abbiamo concretamente. Certo, ci conosciamo, possiamo collaborare, ma la collaborazione è sempre solo formale (…). Ma non è la stessa cosa che vivere tutti insieme in un unico ambiente (…) dove sono presenti questi spazi di collegamento tra le aule e laboratori (…) che sono spazi di vita insieme».

Sebbene anche il professor Franzini riconosca i vantaggi di questo nuovo campus  la cui area, in realtà, sarebbe più piccola rispetto a quella attuale il suo punto di vista rappresenta una voce fuori dal coro: «Sarebbe stato bello se ci fosse stato un piano (comparativo tra trasferimento e ristrutturazione di Città Studi, ndr) affidato (…) non a soggetti che hanno conflitti di interesse (il Policlinico di Milano, ndr). (…) Tra l’altro ad oggi io non ho ancora visto un piano economico dei costi effettivi del trasferimento e dei costi anche per poter trovare quei soldi che vanno al di là di quei 130 milioni dati con la Legge di Bilancio.» Lasciando intendere con questa osservazione che tutto ciò che è stato detto sulla sostenibilità del trasferimento del polo scientifico ad Expo sia stato detto senza cognizione di causa, ma solo come slogan elettorale da gridare a gran voce.

In effetti, questa oscurità riguardo le modalità con cui si dovrebbero trovare il resto delle risorse necessarie per portare a termine il progetto si riflette anche su alcune dichiarazioni dei candidati.

Lascia piuttosto perplessi la proposta della professoressa Abbracchio, la quale sostiene che non bisognerebbe partire «dall’idea che dobbiamo cedere queste aree che noi lasciamo ad altri (Bicocca e Politecnico, ndr). Se fosse sostenibile, perché non ristrutturare queste aree di Città Studi per noi stessi che ne abbiamo profondamente bisogno?». Secondo la professoressa, queste aree ristrutturate potrebbero essere riutilizzate per ospitare il polo di Lingue o Beni Culturali o, in alternativa, essere trasformate in residenze per gli studenti. Però, qualunque sia il destino ultimo di Città Studi  che si ipotizza possa anche diventare la casa di Beni Culturali e Scienze Politiche, le cui sedi sono potenzialmente in vendita si dimentica il punto fondamentale: il ricavato dalla vendita degli immobili, siano essi di Piola, piuttosto che via Conservatorio o di via Noto, devono essere destinati alla costruzione del nuovo campus a Rho, poiché i soli finanziamenti della Regione non bastano per coprire la spesa. Finanziamento che non è stato offerto all’Ateneo per il progetto in sé o come premio per un passato virtuoso: nell’area Expo non ci vuole andare nessuno, nemmeno il Politecnico e la Bicocca, che anzi hanno mostrato interesse nel voler comprare il polo di Città Studi, che noi invece vogliamo lasciare; probabilmente la Regione sta cercando di spingerci con i soldi, come fa il contadino con la carota e l’asino. In sostanza, non si può pensare di trasferire le Facoltà scientifiche nell’ex area Expo e, allo stesso tempo, ristrutturare gli spazi di Città Studi, i quali, come hanno ribadito più volte gli stessi candidati, sono in parte fatiscenti e quindi inadatti ad ospitare alcun Dipartimento.

Al termine del dibattito, in risposta ad una domanda posta da Vulcano Statale, i candidati si sono anche espressi sull’introduzione del numero programmato a Studi Umanistici, tema centrale di questo e dello scorso anno accademico. Il professor Franzini si schiera «per l’autodeterminazione dei popoli. Lingue aveva votato per il numero programmato (…) dunque io ho votato a favore. Nel caso diventassi Rettore farei esattamente quello che ho fatto da Preside, ossia parlerei con tutti e sentirei quali sono le varie posizioni e rispetterei la volontà dei singoli dipartimenti. Farei esattamente il contrario di quello che è stato fatto (riferendosi alle modalità con cui è stato approvato il numero programmato lo scorso maggio, ndr)».
La professoressa Abbracchio, invece, confessa di stare riesaminando il caso e continua: «Senz’altro saprò dare una risposta più concreta quando saremo veramente candidati a Rettore. (…) Il mio modello è basato sul metodo, ossia analizzare insieme la situazione vedere i numeri, e sulle persone, cioè lavorare insieme rispettandoci a vicenda per cercare di trovare una soluzione condivise. Ma questo non riguarda solo il numero chiuso, riguarderebbe tutto.» 
Infine, il professor De Luca fa notare come «a Scienze Politiche il numero programmato è stato inserito l’anno prima senza che ci fosse uno strepito e uno scalpitio particolare. Nei corsi di laurea dell’area scientifica tutti i corsi vengono commisurati a determinate esigenze. Qui c’è stato un attorcigliamento di considerazioni politiche che hanno portato al peggio di quanto si potesse fare sotto il profilo della gestione. Ma i direttori di Dipartimenti erano tutti favorevoli ad un primo contingentamento, quindi sarebbero andati verso una forma di orientamenti agli ingressi. (…) Dobbiamo essere responsabili rispetto la scelta dei ragazzi: a dicembre 300 ragazzi dell’area umanistica hanno rinunciato agli studi. Il tema dell’orientamento è quindi fondamentale. Con le forme che i Dipartimenti riterranno, ma che devono rispettare lo standard e gli interessi complessivi dell’ateneo».

Oltre alla fumosità delle argomentazioni, che lasciano intendere misteriosi conflitti di interesse e sotterfugi, lascia stupiti la totale mancanza di una parola nei discorsi degli aspiranti rettori: studenti. Si è parlato dei vantaggi e degli svantaggi del trasferimento per il corpo docenti e per il personale tecnico-amministrativo, della sostenibilità economica e edilizia, ma (quasi) mai di studenti, dei soggetti che vivono l’università in prima persona.

Barbara Venneri
Non chiamatemi Vènneri.
Sheila Khan

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