Immagine in evidenza: protestanti a Teheran © Anadolu Agency/Getty Images
Chi conosce bene l’Iran racconta che si tratta di un paese che sembra calmo, ma una protesta, apparentemente insignificante, può scoperchiare il vaso di Pandora.
Non è semplice ricostruire quello che sta accadendo in questi giorni in quella che un tempo era la Persia. Le proteste, cominciate nelle città periferiche negli ultimi giorni di dicembre e poi estesesi anche alla capitale Teheran, hanno certamente una matrice economica: l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e il carovita non sono stati per nulla apprezzati dalle classi meno abbienti. Gli slogan della piazza, però, riguardano anche la corruzione dei leader e il bilancio della Repubblica iraniana, che il presidente Rouhani ha recentemente reso pubblico. Ebbene, ciò che ha fatto scandalo di questo bilancio è stata l’evidenza dell’entità dei fondi destinati alla classe militare e religiosa del paese, ritenuta eccessiva in tempi di crisi economica. La scelta del capo del governo di rendere pubblico il bilancio si spiega in un solo modo, e cioè con l’intenzione di rafforzare la propria base di governo per poter realizzare la propria agenda di riforme, che non sembra essere particolarmente gradita dallo “stato profondo” iraniano, la componente non elettiva e teocratica del governo capeggiata dall’ayatollah Khamenei, guida suprema della Repubblica islamica. Il blocco di potere religioso-militare, infatti, teme che i propri interessi siano intaccati dallo sforzo riformatore di Rouhani.
C’è, poi, la politica estera del governo, ritenuta aggressiva e ingiustamente spendacciona. Gli aiuti economici forniti ai palestinesi, a Hezbollah in Libano e alle fazioni sciite in Siria, non sono piaciuti ai poveri dell’Iran, che forse rimpiangono la politica di sussidi dell’ex presidente Ahmadinejad. I ministri degli esteri degli Stati arabi, inoltre, hanno accusato l’Iran di ingerenza in diversi Stati mediorientali, tra cui Yemen e Bahrain.
Il disagio, soprattutto giovanile, legato all’economia, la delusione manifestata dalla piazza nei confronti del governo di Rouhani, confermato proprio di recente in un’elezione nella quale aveva sconfitto un avversario più populista e vicino ai ceti deboli, lo scontro interno tra riformisti e conservatori, l’interventismo in politica estera, però, non spiegano tutta la storia.
Come spiega la professoressa Anna Vanzan, docente di cultura araba all’Università degli Studi di Milano, in occasione della conferenza dell’ISPI tenutasi ieri sul tema, c’è qualcosa di più profondo che da anni serpeggia nella società iraniana. Non è colpa solo dell’economia. Molte cose non vanno nel paese, a cominciare dalla mancanza di libertà, evidente in molti aspetti della vita quotidiana, che ha ormai stancato la popolazione. Gli iraniani, però, conoscono bene il prezzo di sangue che i loro concittadini hanno pagato nel corso degli ultimi decenni per le rivolte interne e per questo starebbero tentando di differenziare la protesta con piccole grandi rivoluzioni silenziose. Più di ogni altra cosa, ciò che infastidisce gli iraniani che scendono in piazza è l’ipocrisia, dilagante tra le élite politiche che, pur imponendo i divieti, raramente li rispettano. La censura di internet, ad esempio, comporta anche il divieto di utilizzare i social network sembra non valere per le autorità, perfino per l’ayatollah Khamenei, che in questi giorni ha utilizzato Twitter per spiegare le proteste incolpando i nemici esterni dell’Iran e i loro servizi segreti, nonché per rispondere al presidente Trump che, con il savoir faire diplomatico che si ritrova, gli aveva ricordato che gli Stati Uniti restano a guardare.
Di fronte ai divieti, che sottolineano la natura illiberale della Repubblica iraniana che, è bene ricordarlo, è un ibrido tra una democrazia e un regime autoritario, gli iraniani adottano da anni una serie di contromisure che permettono loro di arginare queste limitazioni. La società civile, insomma, si organizza come può e con piccoli stratagemmi riesce a svolgere attività per le quali sarebbe difficile, se non impossibile, ottenere permessi dal governo. Per ottenere l’autorizzazione ad organizzare un evento pubblico, come un seminario di poesia, possono essere necessari tempi d’attesa lunghissimi e il permesso può non arrivare mai. Per questo l’uso di social network, in particolare Telegram, è così diffuso: permette agli iraniani di estendere l’invito e, così facendo, fare rete.
La crisi economica, comunque, sta favorendo l’apertura del governo, che per non esacerbare la situazione tende sporadicamente a fare delle concessioni. Recentemente, infatti, è stata approvata una legge che abolisce la pena di morte per gli spacciatori in possesso di una quantità di sostanze stupefacenti inferiore ai 2 kilogrammi. Sembra che qualcosa si muova anche per quanto riguarda la questione del dress code islamico imposto alle donne: la polizia iraniana non arresterà più le donne senza velo o mal velate, piuttosto si prevedono dei programmi educativi per insegnare alle donne a rispettare il codice. Non è vero, dunque, come pure si è detto, che il velo non c’entra nulla. La foto di una donna che agita il velo è ben presto diventata iconica, pur non essendo stata scattata durante le proteste degli ultimi giorni. Eppure, le iniziative delle donne iraniane che, pur volendo per scelta portare il velo, sono contrarie alla sua imposizione non mancano.
Una questione che preoccupa gli iraniani, e che in parte li ha spinti a scendere in piazza, è quella dello storico accordo sul nucleare, ripudiato da Trump ma ancora in vigore, che ha imposto condizioni molto dure all’Iran, ispezioni e sorveglianza internazionale affinché non sviluppi l’arma atomica. Nel 2015, quando l’accordo è stato raggiunto, gli iraniani avevano arricciato il naso ma avevano ingoiato il rospo, cosa non facile vista la mentalità nazionalista diffusissima nel paese, nella speranza di ottenere vantaggi economici dalla fine del regime delle sanzioni che per anni li aveva penalizzati. Ora, invece, si sono accorti che i benefici non possono arrivare se non nel lungo periodo e che la situazione di incertezza, a cui contribuisce anche la nuova posizione dell’amministrazione americana, non attira gli investimenti.
Gli iraniani non vogliono un’altra rivoluzione.
Una c’è già stata, quella del 1979, con la quale l’ayatollah Khomeini aveva promesso di salvare i poveri dell’Iran. Vorrebbero che l’Iran diventasse la Cina del Medio Oriente, un paese nel quale il vincolo ideologico (politico nel caso cinese, religioso in quello iraniano) possa essere messo in secondo piano dalla crescita economica. Vorrebbero che non tutti gli aspetti della vita debbano sottostare “alla politica e ai suoi capricci”, come raccontato nel best seller della scrittrice iraniana Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran. Vorrebbero che il rosso dei loro campi di papaveri non ricordasse più il sangue dei manifestanti.