Del: 27 Marzo 2018 Di: Michele Pinto Commenti: 1

Nella notte tra venerdì e sabato si è consumato il rituale parricidio politico del vecchio leader. Votando a sorpresa per Anna Maria Bernini nel secondo scrutinio del Senato, infatti, Matteo Salvini ha umiliato Silvio Berlusconi e l’ha costretto a rinunciare alla candidatura di Paolo Romani, candidatura che fino a quel momento aveva rappresentato la linea Maginot di Forza Italia, l’ultima disperata ridotta di fronte alle pretese salviniane.
In questo modo Salvini è riuscito a imporre la sua linea sia all’alleato Berlusconi che al promesso alleato Luigi Di Maio. Ha realizzato, insomma, un finissimo capolavoro politico che ha concretizzato la strategia dei “due forni” – giocare cioè su due tavoli contemporaneamente – iniziata all’indomani del voto del 4 marzo. Alla Camera è andato il pentastellato ortodosso Roberto Fico, al Senato la superberlusconiana Maria Elisabetta Alberti Casellati. E, inaspettatamente, grazie ai voti di Berlusconi e Di Maio messi insieme.

La partita delle presidenze era iniziata in una situazione caotica. Con il Pd e Liberi e Uguali che si erano autoesclusi, l’accordo raggiunto giovedì era di eleggere un grillino alla Camera e un esponente di centro-destra al Senato. L’intenzione di Salvini, com’è noto, è fare di questa maggioranza la base parlamentare del prossimo governo: portare insomma all’alleanza con i Cinque Stelle il centro-destra nella sua interezza, così da non perdere l’appena conquistata leadership della coalizione. Se infatti l’accordo con i Cinque Stelle fosse della sola Lega, il peso contrattuale del leader leghista sarebbe molto ridimensionato. Berlusconi aveva probabilmente fiutato la trappola – il sottinteso dell’intera vicenda è che Salvini vuole lentamente assorbire quel che resta di Forza Italia – e si era impuntato su Romani, sgradito a Di Maio a causa di una antica condanna per peculato. Romani, Bernini, Casellati: tre candidati di Forza Italia in campo erano troppi, e Salvini ha avuto gioco facile a triangolare con i Cinque Stelle e a mettere Berlusconi nel sacco. E “triangolare” è proprio il termine adatto, perché il gioco di sponda di Salvini – con la finta sulla Bernini – è stata una vera e propria manovra geometrica.

Ma il triangolo in questione non è solo euclideo.

C’è qualcosa di più, come il murales del bacio tra Salvini e Di Maio apparso sui muri di Roma ha dimostrato. Tra i due, dopo le trattative degli ultimi giorni, la sintonia è ottima. «Ormai sento Di Maio più di mia mamma», ha ammesso il segretario leghista. E a stretto giro Di Maio ha ribadito il concetto: «Salvini ha dimostrato di essere una persona che sa mantenere la parola data.» A questo punto l’accordo, soprattutto per la partita del governo, sembra essere nei fatti. Entrambi si sono probabilmente resi conto di come sia necessario capitalizzare in fretta il successo elettorale: singolarmente non possono farlo, ma insieme possono trovare una qualche intesa che eviti al Paese di tornare alle urne in tempi brevi. Anche perché difficilmente Mattarella sarà disposto a incaricare qualcuno se i partiti interessati non gli dimostreranno l’esistenza di un accordo vero che si fondi su un programma di governo coerente. Su questa strada, però, ci sono almeno due ostacoli.

Come in ogni triangolo che si rispetti, la prima difficoltà è nella coppia principale. A chi spetta la premiership? Al capo del partito più forte (Di Maio) o al leader della coalizione più votata (Salvini)? La partita è aperta, e non è difficile che si trasformi presto in una battaglia campale. La guida del governo, oltre alla naturale visibilità, garantisce anche un peso politico e decisionale che un semplice partner di maggioranza non può avere. Se i due giovani leader dovessero scontrarsi con asprezza su questo punto, non è improbabile che si ritrovino entrambi costretti a fare un passo indietro. Lasciando spazio aperto, di conseguenza, a un premier di area – o grillina o leghista – che garantisca entrambi i contraenti. Ma queste sono problematiche tattiche, che si scioglieranno solo durante le consultazioni al Quirinale, dal 3 aprile in poi.

La questione fondamentale, al momento, è un’altra. Ed è una questione che riporta in ballo il famoso triangolo. Si tratta, neanche a dirlo, del terzo incomodo: Silvio Berlusconi. Come detto, nelle prossime settimane gran parte delle fortune di Salvini dipenderanno da come si presenterà al Quirinale, rappresentante di una coalizione del 37 per cento oppure leader di un partito del 17. Per lui è dunque importantissimo tenere unito il centro-destra, e portarlo interamente nella trattativa con Di Maio. Il gioco dei “due forni” sulle presidenze era finalizzato proprio a questo: tenersi unito a Berlusconi mentre già abbracciava Di Maio. Un triangolo in piena regola. Come si è visto nei giorni scorsi, però, Berlusconi non è affatto intenzionato a rivestire il ruolo della vittima sacrificale, a cedere su tutta la linea e a consegnare ogni potere sulla coalizione all’alleato leghista. Ma, ovviamente, resistenze in questo senso arrivano anche dal fronte opposto, quello dei grillini. Per loro non è stato indolore nemmeno il voto alla Casellati al Senato: chissà cosa succederebbe, soprattutto tra i militanti, se il Movimento si ritrovasse al governo con quello che Grillo, ancora non molto tempo fa, chiamava “psiconano”. E soprattutto dopo le crociate degli ultimi cinque anni con le quali i Cinque Stelle hanno accolto ogni accordo tra Pd e Forza Italia. Un rebus, insomma.

Intanto l’appassionato bacio del murales è stato cancellato con insolita solerzia dall’Ama. Ma è l’emblema dell’inedita convergenza tra i due leader del populismo nostrano, e resta, al momento, una delle poche certezze della situazione politica. Come appare una certezza il triangolo Di Maio-Berlusconi-Salvini. Sembra di sentirlo, il leader dei Cinque Stelle, che sul filo del telefono rievoca con Salvini il noto ritornello di Renato Zero: «Lui chi è? Come mai l’hai portato con te? Io volevo incontrarti da solo, semmai…»

Michele Pinto
Studente di giurisprudenza. Quando non leggo, mi guardo intorno e mi faccio molte domande.

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