Del: 29 Aprile 2018 Di: Redazione Commenti: 0

Mattia Alfano

«Signor Zuckerberg, negli ultimi giorni ha mandato dei messaggi a qualcuno.» «Si.»

«Vorrebbe dirci il contenuto e a chi ha inviato quei messaggi qui pubblicamente?» Dopo qualche attimo di imbarazzo, l’inventore del colosso Facebook risponde:  «No.» Le domande mirate e alla parvenza banali del senatore democratico Dick Durbin, davanti al congresso Usa per il caso Cambridge Analytica, mettono al muro Mark Zuckerberg.

Bisogna però fare prima un po’ di chiarezza. Il caso denominato “Cambridge Analytica” è scoppiato nel weekend tra il 17 e il 18 marzo ad opera di alcuni pesanti articoli usciti sul Guardian e sul New York Times. Questi hanno dimostrato un uso scorretto di una immensa quantità di dati presi da Facebook da parte di una società di consulenza chiamata Cambridge Analytica. Questa azienda inglese, di idee conservatrici, ha lo scopo di prelevare un’enorme quantità di dati dai vari social network e, tramite l’uso di algoritmi complessi, rielaborarli al fine di ottenere un preciso profilo psicologico dei vari utenti. In questo modo la società si applica poi per attivare, sempre tramite social, una sorta di “propaganda mirata” al fine di ottenere il consenso di voto di quella persona  per un determinato partito o personaggio politico. Il multimiliardario informatico e imprenditore statunitense è stato citato in giudizio per aver permesso questa raccolta e di aver poi sottovalutato e nascosto la cosa. Secondo alcune fonti sarebbero circa 87 milioni i profili Facebook usati dalla compagnia inglese di cui circa 214 mila quelli italiani. Questo caso si è abbattuto poi sul presidente USA Donald Trump e sulle presidenziali del 2016. L’entourage di Trump infatti ha affidato la gestione delle raccolta dati per la campagna elettorale proprio a Cambridge Analytica.

Non si sa di preciso quanto l’azienda abbia collaborato né con quali strumenti, ma da indagini giornalistiche e giudiziarie si è venuto a conoscenza che l’attività online pro Trump fu molto organizzata e su larga scala. Così come lo è stata l’attività di scredito nei confronti di Hillary Clinton.

Tornando alle risposte imbarazzate di Mark Zuckerberg, verrebbe da dire che si è comportato in modo del tutto normale. Moltissimi commenti di persone lo hanno preso a male parole per non aver dichiarato il contrario, e cioè, per non aver voluto dichiarare il contenuto dei messaggi personali. D’altronde, chi lo farebbe mai? Chi vorrebbe dichiarare proprio tutto di ciò che pensiamo? Nessuno. La verità è che quasi tutte le persone di questo mondo si sono scontrate con le migliori menti della Silicon Valley. Costoro, infatti, hanno introdotto, nella nostra vita quotidiana, una parola a dir poco “diabolica”: condivisione. Questo termine infatti è positivo. Implica appieno il valore di socialità, di collettività e di amicizia. E chi non vorrebbe essere socievole e disponibile nei confronti degli altri? Anche in questo caso nessuno. Ma siamo consapevoli di tutto ciò che vi sta dietro a questo mondo di condivisioni, like, foto e tag? Siamo veramente consapevoli del controllo e dello sfruttamento che viene esercitato da queste piattaforme virtuali? Solo in parte. Fortunatamente però, almeno in Europa, si sta cercando di provvedere ad un maggiore incremento delle norme sulla privacy per cercare di porre un minimo freno a questo dilagare di contenuti.

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