Del: 10 Maggio 2018 Di: Gaia Lamperti Commenti: 0

Nessun testo recitato, nessun costume e scenografia praticamente inesistente: solo quattordici attori anonimi, nudi, indifesi e completamente disorientati su di un grande palcoscenico spoglio.
Questo deve aspettarsi lo spettatore che si accinge alla visione di Bestie di Scena, spettacolo ideato e diretto da Emma Dante, che torna (dal 9 al 20 maggio 2018) al Piccolo Teatro di Milano, per il secondo anno di fila, dopo aver incassato più di 16mila spettatori nella scorsa stagione.

Uno spettacolo spoglio e tuttavia ricchissimo. La scena, un non-luogo sospeso nel tempo e nello spazio, diventa covo di insidie, paure ed insicurezze: tutti sono nudi, sanno di esserlo e si affannano per nasconderlo.

Un sorta di Eden post peccato in cui le tentazioni però continuano a non mancare.

Infatti, unica interazione con e fra questi corpi sono alcuni oggetti, assolutamente comuni, che tuttavia, come fossero reminiscenze da un modo altro, sembrano giunti sul palco per accendere la miccia di impulsi, tensioni, affanni.
Prende così il via una carrellata confusionaria di passioni umane che ci trascinano in un vortice di empatia: quei quattordici individui, i quali – almeno apparentemente – nulla hanno in comune fra di loro, si odiano, si amano, si divertono, si vergognano e hanno paura.
Il legame che si crea con il pubblico non potrebbe essere più diretto: caduto ogni velo, ogni barriera, ogni patina di ipocrisia, ci troviamo letteralmente agganciati da questi corpi che, nella loro spersonalizzazione più totale, potrebbero essere proprio i nostri.

Alla bestialità richiamata dal titolo fa allora da contraccolpo un’estrema umanità sprigionata da creature che, con slanci disperati, cercano di opporsi e resistere a quelle che sembrano forze ineluttabili contro cui l’uomo si trova – per l’appunto – nudo ed indifeso.

Le “bestie di scena” si aiutano a vicenda, formano catene umane, si soccorrono e, quando serve, sanno collaborare.

La regista ha spiegato che quello che intende raccontare è “un meccanismo segreto che svela il processo con cui nasce e si forma un individuo”. Risultato che ha ottenuto solo dopo aver rinunciato a quelle che erano le iniziali premesse: «Volevo lavorare sull’attore secondo l’offerta del teatro oggi, poi da questa indagine mi sono allontanata, per concentrarmi sull’umano»; e ancora: «Mi sono ritrovata di fronte a una piccola comunità di esseri primitivi, spaesati, fragili, un gruppo di imbecilli che come gesto estremo consegnano agli spettatori i loro vestiti sudati, rinunciando a tutto. Da questa rinuncia è cominciato tutto, si è creata una strana atmosfera che non ci ha più lasciati e lo spettacolo si è generato da solo.»

Allo stesso tempo quindi, se lo spogliarsi davanti al pubblico diventa una rinuncia, si tratta di una scelta. Di un gesto deliberato per aprirsi, rendendosi più vulnerabili sicuramente, ma anche più umani e, in qualche modo, liberi. È solo dopo essersi tolti gli abiti ed aver sacrificato il mascheramento delle costrizioni sociali, infatti, che ciascuno di loro riesce a dare sfogo alle proprie manie, istinti e passioni più accese con spiazzante umanità.

Gaia Lamperti
Studentessa di lettere moderne. Ho il vizio di comprare voli low-cost quando mi annoio. Sono per il buon rock, i locali chiassosi, i pomeriggi al mare, le menti fresche e gli animi caldi.