Del: 19 Maggio 2018 Di: Michele Pinto Commenti: 0

Governo Salvini-Di Maio o governo “neutrale” che porti alle elezioni. Dopo oltre settanta giorni, sul piatto sono rimaste queste due ipotesi, con una rilevante prevalenza di probabilità a favore della prima. Il protagonista indiscusso di questa complicata crisi di governo  la più lunga della storia repubblicana  è stato il capo politico dei Cinque Stelle Luigi Di Maio. Succeduto a Grillo lo scorso settembre, ha condotto la campagna elettorale del Movimento e il 4 marzo l’ha portato al grande successo del 32,6 %.

La sua figura, però, nel burrascoso susseguirsi di tavoli, trattative, forni e braccia di ferro, ha finito per appannarsi. Quando si tornerà alle urne (specialmente se prima del previsto), Di Maio dovrà affrontare una serie di questioni che si sono aperte all’interno dei Cinque Stelle dopo il voto del 4 marzo.

In queste settimane, infatti, sono caduti  senza alcuna spiegazione da parte dei vertici pentastellati  almeno quattro dei dogmi imprescindibili e caratterizzanti del Movimento, considerati inderogabili fin dalle origini.

Il primo è certamente quello delle alleanze. Per cinque anni i grillini hanno accusato il Pd di “inciucio” a causa degli accordi stretti con Berlusconi, in occasione prima del governo Letta e poi del patto del Nazareno. Questo tema è stato sfruttato enormemente anche durante la campagna elettorale per le politiche, tanto da Di Maio quanto da Alessandro Di Battista. Quest’ultimo, in particolare, ha più volte espressamente dichiarato: “Se il M5S farà alleanze con i partiti che hanno distrutto l’Italia, lascerò il movimento”. Dopo le elezioni, però, Di Maio si è detto disponibile a stringere accordi tanto con il Pd  i cui esponenti erano stati tra le altre cose definiti “mafiosi”, “massoni” e “assassini politici” quanto con la Lega. Nessuno, all’interno del Movimento, ha obiettato su questa scelta. A un certo punto della crisi il leader grillino ha speso parole di conciliazione persino nei confronti di Berlusconi (fino a quel momento definito “male assoluto”), sul quale, ha detto, non ci sono veti. Queste clamorose giravolte sono forse l’emblema della maturazione, o almeno del cambiamento, dei Cinque Stelle: si è fatta infine strada, probabilmente, la consapevolezza che senza trattative e dialogo è impossibile raggiungere dei risultati.

Per quanto riguarda la trasparenza, poi, il cambio di rotta è evidente. Nel 2013 i Cinque Stelle costrinsero l’allora segretario del Pd Pierluigi Bersani a un’umiliante diretta streaming, durante la quale respinsero sprezzantemente tutte le proposte avanzate da Bersani. Era il tempo dello streaming, della trasparenza che entrava per la prima volta nei palazzi del potere durante le trattative, le consultazioni e le riunioni dei gruppi parlamentari. Ancora nel 2014, Grillo incontrò il presidente incaricato Matteo Renzi in diretta streaming. Oggi i Cinque Stelle di Di Maio hanno abbandonato ogni tipo di trasparenza, a favore delle più rassicuranti dichiarazioni e dei paludati comunicati stampa. Le trattative con la Lega per il governo, le consultazioni e le riunioni dei gruppi parlamentari Cinque Stelle non vengono trasmesse in streaming. Le dichiarazioni che seguono questi incontri sono ponderate con attenzione, tanto che risulta molto difficile comprendere, dall’esterno, quale sia il reale tenore della trattativa tra di Maio e Salvini, quali siano i nodi del dibattito e quali siano i punti di divergenza (il programma o i posti da ministro?).

Anche rispetto al limite dei due mandati c’è stato un significativo passo indietro. Dopo anni di ferrea ortodossia sembra infatti essere arrivato, tra tentennamenti, conferme e smentite, il momento di archiviare il limite dei due mandati elettivi, soprattutto nel caso di un rapido ritorno al voto, a luglio o in autunno. Questa regola, nata per garantire un regolare ricambio tra gli eletti dei Cinque Stelle  e proposta anche per essere inserita in Costituzione  è stata di fatto una spada di Damocle sulla testa di Di Maio nel corso degli ultimi due mesi: rinunciare a formare il governo in presenza di questo vincolo, infatti, avrebbe comportato per il leader pentastellato l’impossibilità di una nuova candidatura. Probabilmente, anche per evitare lo sgradevole scenario di un rapido ritorno alle urne, Di Maio si è detto disposto, dopo il voto, a formare un governo tanto con la Lega quanto con il Pd.

Infine, Di Maio dovrà spiegare anche la contorta e macchinosa trattativa sulle poltrone di cui i Cinque Stelle si sono resi protagonisti. Si è fatta strada, innanzitutto, l’ipotesi che Di Maio abbia mirato fin dall’inizio alla poltrona di Palazzo Chigi, alla presidenza del Consiglio, in barba alla tanto declamata responsabilità e in virtù del comprensibile desiderio di non perdere il prezioso (e forse irripetibile) treno che si è trovato a portata di mano. La sua argomentazione principale  del resto ben giustificata  era stata inizialmente ispirata dal modello tedesco: al capo del primo partito, anche nei governi di coalizione, spetta la premiership. Perciò i Cinque Stelle, forti delle percentuali del voto, ritenevano essenziale, per avviare qualsiasi discussione, che il premier fosse Di Maio. Sulla base di questo preambolo si sono arenate le trattative Cinque Stelle-centrodestra e poi Cinque Stelle-Pd. Poi Di Maio ha fatto un passo indietro e si è detto disposto a rinunciare a Palazzo Chigi, probabilmente per evitare il governo “neutrale” proposto da Mattarella e tenere aperto il dialogo con la Lega. Ma quasi subito, come ha rivelato Giorgia Meloni, Di Maio è tornato a ricercare appoggi per la sua candidatura a presidente del Consiglio. Non solo: la trattativa con la Lega si è protratta per una decina di giorni, oltre che sul contratto di governo, anche sulle poltrone. Sul nome del premier si è assistito a un improbabile carosello di nomi. Nel frattempo, si discuteva anche su altre eventualità: i segretari dei partiti stanno dentro o fuori dal governo? I ministri designati prima del voto da Di Maio vengono confermati o accantonati? Alcuni ministeri devono essere assegnati a uomini “graditi” a Berlusconi? E, infine, ci deve essere una “staffetta” tra Di Maio e Salvini per la carica di presidente del Consiglio?

Questi temi di etica della politica sono stati sempre cari ai militanti grillini. Ma non solo: negli ultimi anni, nel clima generale di contestazione alle pratiche della vecchia politica, hanno spinto molti elettori ad avvicinarsi ai Cinque Stelle. Modificare questi dogmi era forse necessario per arrivare al governo e giocare con più libertà, nelle trattative, le carte a disposizione. Ma il valore simbolico e sostanziale per la purezza grillina resta innegabile, proprio perché questi cambiamenti investono le ragioni stesse dell’esistenza del Movimento Cinque Stelle, nato per essere “diverso” dai partiti tradizionali. Quale sarà, dunque, l’impatto di questa evidente retromarcia?

Michele Pinto
Studente di giurisprudenza. Quando non leggo, mi guardo intorno e mi faccio molte domande.