Del: 27 Maggio 2018 Di: Lucia De Angelis Commenti: 0

È il 1994, in una località di mare del sud della Francia. Amin ha lasciato Parigi e gli studi di medicina per trascorrere le vacanze con i parenti, gli amici e le amiche di infanzia.

In un intreccio di primi piani espressivi e sequenze controluce si distinguono gli altri personaggi della storia: l’amica di infanzia Ophélie, il cugino Toni, due ragazze, Charlotte e Cèline, conosciute in spiaggia, la sorella di Toni, la madre, lo zio Kemal, attempato ma perennemente invaghito di tutte le giovani ragazze al seguito del gruppo.

Mektoub My Love Canto Uno è essenzialmente una storia di corpi, di fisicità e desiderio sessuale anche se il sesso è più alluso che praticato (a parte in una scena). 

È un susseguirsi di scorci di vita, tra le bevute, le danze, la gioia, la fame, i bagni, la caciara e le lunghe e incessanti chiacchierate, che fanno però più da sfondo uditivo che non da fulcro della narrazione. Ciò che cattura lo spettatore rimangono le interazioni fisiche: gli sguardi, il contatto epidermico, i corpi giovani in perenne movimento.

Nel turbinio degli eventi estivi Amin, pur essendo il protagonista e pur monopolizzando prepotentemente la prospettiva delle inquadrature, rimane sullo sfondo.

Il protagonista timido, silenzioso, osservatore, impacciato con le donne nonostante eserciti su di loro un grande fascino, si lascia coinvolgere indistintamente da ogni tipo di bellezza: da quella voluttuosa a quella sobria e pura.

Non c’è contraddizione in questo: all’inizio del film afferma di aver abbandonato gli studi di medicina perché diventare medico non era la sua reale aspirazione: ad Amin infatti non interessano i corpi malati, interessa la vitalità, l’intima innocenza nell’immortalare il parto di una pecora al pari dell’intimo desiderio di fotografare nuda la florida Ophélie. Amin celebra il dinamismo giovanile di chi lo circonda nella maniera che più si adatta al suo temperamento refrattario alla socievolezza: fotografando e scrivendo sceneggiature.

Il regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, dopo il controverso e premiatissimo La vita di Adele, ritorna cinque anni dopo con un film che è un libero adattamento di La ferita, quella vera, testo autobiografico di François Bégaudeau e da poco pubbilcato in Italia da Einaudi. I due lungometraggi, diversissimi sia per toni che per tema, presentano però un particolare ricorrente, che poi è forse un feticcio del regista: il piatto di pasta al sugo. Adele divorava la pasta, così come tanti altri cibi, con energica voracità con quella stessa fame d’amore e di esperienze che la attraeva magneticamente verso Emma. Amin invece mangia la pasta perché, e lo dirà esplicitamente, ama le cose pure e semplici. Un vitalismo spontaneo, a tratti superficiale… Ma anche la superfice è dotata di una sua dignità, di una sua grazia, di una sua giovanile profondità.

Lucia De Angelis
Mi entusiasmano i temi sociali, i filosofi greci, le persone intelligenti e le cose difficili.