Del: 25 Settembre 2018 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 0
L'été di Camus e la questionne algerina -Vulcano Statale

L’été è una raccolta di saggi di Albert Camus che raccontano un viaggio tra le diverse sponde del Mediterraneo – dall’Algeria alla Grecia e alla Provenza – attraverso i suoi miti.

La riflessione sull’assurdità della condizione umana, una costante degli scritti camusiani, è in questo caso ben rappresentata dalla descrizione urbana delle città algerine di Orano e Tipasa.
Nel suo saggio risalente al 1939 Il minotauro o la sosta di Orano la città algerina è descritta come profondamente diversa dalle città europee, troppo piene di rumori del passato e poco adatte ai momenti nei quali “il cuore domanda luoghi senza poesia”.
Orano è un luogo senza ontologia: lungo i suoi viali, “non si agita il problema dell’essere e non ci si preoccupa della perfezione”.
Abituati a vivere davanti ad un paesaggio ammirevole, gli abitanti si sono circondati di costruzioni molto brutte: ci si aspetta una città affacciata sul mare, rinfrescata dalla brezza della sera. Invece, ci si trova davanti una città che ha deciso di dare le spalle al mare, arrotolata su se stessa come una lumaca. Orano è un “grande muro circolare e giallo, coperto da un cielo duro”. Tutta la città rimane immobile in una ganga pietrosa, che la avvolge con una bellezza pesante e che sembra venire da un altro mondo.
L’assurdità della condizione umana consiste, forse, nel voler trovare un senso, come fanno gli abitanti di Orano che spesso si lamentano della loro città e che a dir loro non offre nulla di interessante. Eppure, Orano non è completamente deserta. Lì si possono trovare dei caffè con il bancone lucido e un proprietario sempre sorridente nonostante la penuria di clienti, degli atelier di fotografia che espongono ritratti di tipi umani singolari, ed infine un’abbondanza illuminante di pompe funebri. Sarà, forse, che ad Orano si muore più che altrove? Più probabile, allora, che la morte sia accolta con una maggiore teatralità.

In Ritorno a Tipasa del 1952, Camus torna in una città che pensava di conoscere bene. Vi si era già recato una volta, poco dopo gli anni della guerra che “segnarono la fine della (sua n.d.r.) giovinezza”. Questa volta Camus assiste – inerme – a cinque giorni di pioggia senza sosta. L’immutabilità della condizione umana si scontra con qualcosa di mobile: lo scorrere del tempo. Non si può tornare indietro, dice lo scrittore franco-algerino, e ridare al mondo il volto che aveva avuto in passato e che era “svanito in un giorno solo”. Erano venuti i fili spinati, i tiranni, la guerra, il tempo della rivolta. A Camus, come a qualunque altro essere umano, non restano che i ricordi: l’infanzia violenta, i sogni adolescenziali, la leggera angoscia della sera in un cuore di sedici anni.

Sono in molti ad aver individuato una dimensione politica nelle descrizioni camusiane delle città algerine.

Come ha notato David Carroll nel saggio The Colonial City and the Question of Borders: Albert Camus’ Allegory of Oran, Orano possiede la natura ibrida delle città cosmopolite di oggi. Secondo Camus, nella città algerina “tutto il cattivo gusto dell’Europa e dell’Oriente si incontrano” e c’è un’aria stravagante e assurda.

Leggere Camus fa sorgere una questione: all’immutabilità umana si accompagna anche una staticità politica e sociale? Il paesaggio pietroso di Orano sembra statico e immutabile. Non tutto, però, è statico e immutabile.
Nelle colonie francesi del Nord Africa vi erano limiti ben definiti che separavano la cité européenne, dalla Casbah araba e dal quartiere ebraico. Con la fine del colonialismo le nuove nazioni si sono comprensibilmente impegnate nell’affermazione della propria indipendenza come entità statuali indipendenti. Tuttavia, nel farlo hanno minimizzato, quando non addirittura negato, la loro natura multinazionale: che fossero composte da più nazioni – intese come gruppi etnico-culturali – poco importava ai fini del riconoscimento internazionale.

Parte della critica ritiene che tutta l’opera di Camus sia in grado di rivelare la sua visione del colonialismo.

Tra i più feroci critici di Camus vi è sicuramente Edward Said, che allo scrittore franco-algerino ha dedicato il saggio Camus and The French Imperial Experience, contenuto nel suo Culture and Imperialism. Said sostiene come Camus sia stato uno degli scrittori più emblematici rispetto alla questione della relazione tra la cultura e l’impero, nonché il rappresentate della colonizzazione entrata all’interno della stessa letteratura. Di conseguenza, le sue descrizioni liriche dell’Algeria non sarebbero altro che un’espressione non problematica del dominio francese.
L’interpretazione di Said ha generato un dibattito insoluto. Un’analisi degli scritti giornalistici di Camus è utile a spiegare la sua posizione politica sulla questione algerina: come evidenzia Laura Klein, autrice di De la fiction et de la question du transnational chez Camus, lo scrittore dell’assurdo sognava “un’Algeria della giustizia”, transculturale ed ibrida. È vero che Camus rimase a lungo in silenzio sulla questione algerina, ma la sua posizione emerge chiaramente dal manoscritto Appel pour une Trêve Civile en Algérie del 1956, in cui invoca una “libera associazione” tra francesi e algerini.

L’Algeria immaginata da Camus non è una terra di guerre fratricide, come la guerra d’indipendenza terminata con una separazione violenta. Non è neanche un’Algeria francese. È  un paese basato sulla coesistenza di più culture, in cui tutti godono degli stessi diritti.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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