
Non vi è alcun dubbio, osservando il gioco della politica italiana, su chi comandi veramente nel governo giallo-verde. Salvini e Di Maio, i capipartito usciti vittoriosi e rafforzati dalle elezioni di marzo, guidano l’azione dell’esecutivo proponendo, decidendo, affrontandosi. Il Def diffuso all’inizio di ottobre ne è l’ulteriore conferma: concentra la gran parte delle promesse elettorali dei Cinque Stelle e della Lega – molte delle quali in versione light – allo scopo di capitalizzare ulteriori consensi per una coalizione che secondo i sondaggi gode già del 60 per cento di apprezzamento.
Il consenso e il decisionismo dei due vicepremier nascondono però l’altra faccia della medaglia: l’inconsistenza di Giuseppe Conte.
Il presidente del Consiglio si trova innanzitutto in una posizione difficile, stritolato tra le pretese – spesso divergenti – dei due partiti che sostengono il suo governo e le spinte moderatrici del cosiddetto “partito del Colle”, che raccoglie i ministri tecnici come Tria (economia) e Moavero (esteri), diretta emanazione del presidente Mattarella. Sin dalle prime settimane di governo, Conte ha voluto ritagliarsi un ruolo di mediatore tra queste due anime, un ponte di congiunzione tra le diverse istanze presenti nell’esecutivo.
A lungo andare tale strategia ha premiato. Come è noto, Conte si avvale della consulenza del portavoce Rocco Casalino. Prima di finire nella bufera per due audio polemici diffusi da alcuni giornalisti, Casalino è riuscito a costruire per il premier l’immagine di “avvocato del popolo” – che lo stesso Conte aveva evocato all’inizio del suo mandato – impegnato nel silente lavoro di affrontare i dossier e i temi caldi del Paese. Meno annunci, più fatti: un perfetto contraltare al protagonismo di Di Maio e, soprattutto, di Salvini.
In quest’ottica rientrano anche le pochissime interviste rilasciate dal titolare di Palazzo Chigi. La prima a luglio con il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio: un dialogo poco vivace e in perfetto stile “basso profilo” in cui Conte, tra le altre cose, ha confermato la natura del suo ruolo: “Per ora andiamo tutti d’accordo: anche quando ci sono posizioni diverse, la mia mediazione di giurista pragmatico vince sempre”. La seconda, dai toni abbastanza inusuali, a Porta a Porta con Bruno Vespa, dove il premier ha parlato principalmente del suo rapporto con la fede e con Padre Pio.
Questo sostanziale inattivismo, emerso anche nei passaggi cruciali di questi primi mesi di governo, come il caso Diciotti e la pubblicazione del Def – con la festa dei cinque stelle dal balcone di Palazzo Chigi – conferma l’impossibilità per il premier di contare davvero all’interno dell’esecutivo. Non solo la Costituzione attribuisce al presidente del Consiglio la direzione della politica generale e la conseguente responsabilità, ma l’esperienza stessa degli ultimi anni ha dimostrato l’essenzialità del ruolo del premier. Senza una presenza costante di guida, il governo rischia di disfarsi, di frammentarsi in mille rivoli e centri di potere. In parte è già avvenuto: la burrasca finanziaria che ha colpito l’Italia all’inizio di ottobre deriva soprattutto dall’inadeguata comunicazione di Palazzo Chigi, dalla resa del ministro Tria, abbandonato anche da Conte, e dal campo libero lasciato a Salvini e Di Maio per sparare a zero sull’Unione Europea e sulla commissione Juncker. Conte avrebbe potuto frenarli, ma non l’ha fatto.
Quello di Giuseppe Conte è un unicum nella storia italiana: un professore di diritto senza alcuna esperienza politica catapultato in pochi giorni alla guida del Paese. Inesperto, forse impreparato, di sicuro sottoposto a pressioni fortissime da parte dei suoi due vicepremier. Dall’esterno non si può sapere se il suo ruolo sia irrimediabilmente compromesso da questi fattori; di certo in una democrazia liberale come l’Italia bisognerebbe almeno porsi il problema.