Del: 15 Ottobre 2018 Di: Angelica Mettifogo Commenti: 0

In un piccolo volume, pubblicato nel 2014, Andrea Mecacci riassume la storia di uno dei concetti che più toccano il nostro presente: il kitsch.
Il kitsch, per essere afferrato, necessita di un’analisi che non si esaurisca nel riepilogo degli innumerevoli tentativi di definizione e delle sfumature che la stessa ammette, ma che guardi al suo sviluppo diacronico, alle sue metamorfosi, ai suoi contagi e ai suoi esiti.
Pertanto l’indagine, che si sviluppa su tre capitoli, nasce come storico-filosofica ma abbandona progressivamente questo terreno per sconfinare nell’ambito dell’estetica, dell’arte, della politica e dell’antropologia.
Mecacci riconosce come l’origine del kitsch sia rintracciabile in un contesto ben preciso, collocabile nel Settecento e legato al dibattito sul gusto: kitsch è tutto ciò che è legato all’apprezzamento della maniera, dell’artificiosità e dell’affettazione, e si allontana dalla naturalezza e dalla semplicità. È il rifiuto del nuovo e rappresenta tutto ciò che teme l’impulsività e il cambiamento e, per pigrizia, ristagna in canoni già noti, rassicuranti e facili.

Il kitsch non richiede sforzo e offre comodità.

Finge novità attraverso la falsificazione: imita il genio ma fallisce, perché sopravvive inchiodato sempre nella stessa forma e senza lasciare traccia.
Mira a colpire il senso, guarda al godimento e al piacere, non provoca ma, soddisfacendo, vincola perché piace immediatamente e basta.
Più si definisce in questo senso, più si avvicina al sentimentalismo — tendenza figlia del Romanticismo volta all’idealizzazione del mondano e che, esagerata, ne diventa la caricatura. Come il bello, ottiene consenso immediato, universale ma vuoto. E siccome del bello conserva solo la forma, ma esagerandola la distorce, il kitsch diventa un brutto sotto mentite spoglie, non riconoscibile perché non suscita repulsione, anzi: pretende di piacere e, a tutti gli effetti, frequentemente, ci riesce.
Il kitsch è un brutto che si ritrova non in proprietà dell’oggetto, ma in modi di agire: fa della contraffazione (poddelka) la sua regola, estremizza il sentimentale e il sensazionale mirando a costruire una maschera che nasconda la sua inconsistente identità. Piace a chi non ha gusto, non sa ben giudicare e quindi non riconosce l’inautenticità, anzi, ingenuamente la cerca perché vuole celare la propria identità e assumerne una che non gli appartiene: indossa un trucco che esibisce eleganza e lusso e cade nel volgare (poslost).
Tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento il kitsch assume connotati nuovi: si riformula accompagnando la nascita della classe borghese e si riplasma rispecchiandone le esigenze.
Una classe prodotta dalle logiche del mondo industriale e ad esso vincolata ha bisogno di evadere nel modo più veloce e facile: cerca distrazioni comode, forme di svago che colpiscano senza richiedere fatica. Il kitsch allora interviene come prodotto pronto all’uso,“usa e getta”, reperibile ovunque e assolutamente semplice. Annulla la complessità dell’arte e ne mantiene solo le vesti, riproponendone i modelli più noti semplicemente affinché colpisca al primo colpo. Sfrutta indiscriminatamente il luogo — senza senso — comune.
L’arte kitsch non ha esigenze che vadano al di là del produrre un effetto immediato ed essere adatta al consumo, per questo rispecchia i caratteri di individualismo, miseria e menzogna della società che l’ha generata: è arte discount, arte a buon mercato che costa poco e pretende goffamente di valere qualcosa. Dal momento che non vuole comunicare nessun messaggio, il kitsch tradisce l’arte bella, distoglie dal pensiero critico e invita all’obbedienza.

Ecco che si trasforma in ideologia: nel momento in cui diventa culto di massa della «bella rappresentazione» — quando cioè la fruizione dell’opera è soltanto emotiva e forte al punto da stordire, eccessiva al punto da confondere e abbastanza affascinante da incantare, come nei raduni nazisti o nelle commedie hollywoodiane — consente alla massa di riconoscersi, di riconoscersi in questo suo bisogno. La riproduzione infinita dalle mille forme del rassicurante e del già noto soddisfa, ma solo apparentemente e solo momentaneamente, l’ormai conquistato consumatore-suddito-spettatore, pronta prima a creare un bisogno nuovo e poi a premurarsi di soddisfarlo: coccola il suo protetto e lo invita a stare fermo, gli impedisce di muoversi e quindi di cambiare.
La cultura kitsch, affinché sia alla portata di tutti, è imposta dall’alto per stare nel mezzo: in un mondo senza regole il kitsch emerge come l’unico fenomeno che ne sia dotato.
Che questa degenerazione del gusto, questa passione per il trucco e venerazione dell’ideale, della contraffazione e del travestimento e dell’arte vengano rivendicate in nome di un’ostentazione di lussuosa bellezza o che, al contrario, addirittura diventi una passione per l’esasperazione del brutto, dello scarto, della spazzatura e goda del suo eccesso (trash), l’esito non cambia.

Il kitsch (diventato neokitsch) da categoria estetica diventa fenomeno estetico, forma culturale e forma sociale.

Allora non risiede più nell’oggetto, ma nel rapporto tra oggetto e soggetto, nel modo di relazionarsi del soggetto con il mondo. Non è più una proprietà ma una pratica che si risolve principalmente in due modi: consuetudine all’annullamento del negativo e all’idealizzazione dell’estraneo e del nuovo. Abbondanza che camuffa e stordisce, il kitsch diventa «modo estetico della quotidianità», riduzione del pensiero e dissoluzione dell’ambizione, cieco compiacimento della più mediocre normalità.

«… E se ogni uomo è un essere quotidiano, ogni uomo non può fare a meno del kitsch: del resto, il kitsch fa parte della condizione umana.»

 

Angelica Mettifogo
In bilico tra tutto quello che voglio fare e il tempo che ho per farlo. Intanto studio filosofia.