Dal 10 gennaio, Brooklyn Nine-Nine sarà di nuovo sugli schermi delle televisioni americane, quest’anno sul canale NBC (che ha fatto tornare la serie in vita dopo 36 ore dalla cancellazione fatta da Fox quest’estate – 36 ore di fuoco per tutti i “Nine-Niners”): il trailer, anzi i tre trailer con finali diversi, rilasciati domenica, preannunciano già una stagione con il botto, che – tutti sono sicuri – sarà all’altezza delle aspettative.
Quando si parla di sitcom, le prime che vengono in mente sono i classici intramontabili che Italia 1 non si è mai stancata di mandare in onda: La vita secondo Jim, Will il principe di Bel Air, Will and Grace e, immancabile, la regina madre del genere, Friends.
Il genere comedy, tuttavia, non è finito con l’arrivo degli anni Dieci del duemila, anzi: il panorama odierno delle serie televisive comedy è densissimo (seppur non sempre di qualità). Solo per ricordarne alcune, c’è la famosissima The Big Bang Theory (che proprio l’anno scorso ha lanciato anche lo spin-off Young Sheldon), si passa per le ormai concluse How I Met Your Mother, New Girl, The Office e Parks and Recreation, senza dimenticare Shameless, Modern Family, The Good Place, ma anche le produzioni Netflix come Grace & Frankie, Unbreakable Kimmy Schmidt o Master of None.
Insomma, il panorama della commedia statunitense (quello italiano meriterebbe un discorso a parte) è pieno di titoli: quindi perché mai iniziare Brooklyn Nine-Nine, quando la possibilità di scelta è così vasta?
La trama di fondo è molto semplice: nel novantanovesimo distretto della polizia di New York a Brooklyn un gruppo di detective stranamente assortiti si occupa del crimine locale.
Ciò che rende Brooklyn Nine-Nine la serie da scegliere quando si è alla ricerca di una commedia è la straordinaria capacità con cui sono trattati i temi più pressanti della contemporaneità, senza mai perdere il lato comico –immancabile in una sitcom. Non solo, il modo in cui sono tratteggiati i personaggi regala una boccata d’aria fresca al mondo della commedia, in cui troppo spesso i protagonisti tendono ad essere rinchiusi in uno stereotipo e a restare solo un mezzo per trovare la risata.
Brooklyn Nine-Nine, invece, non perde occasione di scontrarsi con i luoghi comuni e i preconcetti, dando così vita a una rappresentazione in toto della società americana, minoranze comprese.
Il protagonista della serie è Jake Peralta, interpretato da Andy Samberg (già veterano del Saturday Night Live – un nome, una garanzia): detective appassionato e incredibilmente sveglio che, però, spesso si lascia andare al suo lato più infantile, Jake sembra essere il classico personaggio che non si scusa mai per le sue azioni, il cosiddetto nice guy. Tuttavia, non è così semplice: non solo Jake riconosce pubblicamente i suoi errori, ma cerca sempre di migliorarsi quando capisce di aver sbagliato.
Si presenta già legato a Charles Boyle (Joe Lo Truglio), il suo partner che, ancora più di Jake, sfida lo stereotipo dell’uomo mascolino: anzi, Boyle, con fierezza e un sorriso idilliaco, rivendica la tradizione di famiglia di arrendersi davanti alle difficoltà («Just give up. It’s the Boyle-way. It’s why our family crest is a white flag»).
Anche il sergente Terry Jeffords (Terry Crews) ha un ruolo importante nel combattere la rappresentazione della cosiddetta toxic masculinity: la sua fisicità (111 chili di muscoli distribuiti su 1,90 metri di persona) si pone in diretto contrasto con la sua personalità che mette in scena, invece, un padre e un marito amorevole, e in generale una persona attenta e premurosa nei confronti di chi gli è intorno. Non solo: Terry è anche messo in una posizione importante all’interno della scala gerarchica della polizia, cosa non sempre frequente quando si tratta di personaggi afroamericani in una commedia.
E proprio su questo punto, si raggiunge uno dei momenti più alti di rappresentazione, mai raggiunto prima in una serie comedy, grazie al personaggio del capitano Raymond Holt (Andre Braugher, a cui il ruolo in Brooklyn Nine-Nine ha portato due nominations agli Emmy): non solo un afroamericano in posizione di potere, ma un afroamericano dichiaratamente gay e sposato in un matrimonio misto, ma quanto più possibile lontano dallo stereotipo della “checca”, in posizione di potere!
Non termina qui: perché non sono solo gli uomini ad essere rappresentati attraverso lo spettro di diversità che caratterizza le società odierne. Le tre donne protagoniste, Gina Linetti (Chelsea Peretti), Rosa Diaz (Stephanie Beatriz) e Amy Santiago (Melissa Fumero), sono ognuna caratterizzata in modo diverso e non sviluppano mai una rivalità nociva. Gina non ha peli sulla lingua, che si tratti di uomini o donne; Rosa incute timore ma non esiterebbe a tagliare la gola a chi facesse del male ai suoi cari (non sono le sue esatte parole, ma che altro ci si aspetta da una persona che pronuncia la frase «What kind of woman doesn’t have an axe»?); Amy è estremamente competitiva e orientata verso i suoi obiettivi. Rosa e Amy, tra l’altro, si inseriscono nella straordinarietà della scelta di casting: infatti, sia Beatriz sia Fumero sono due latinas, coppia difficile da trovare in una commedia. Invece, ancora una volta, Brooklyn Nine-Nine va contro le convenzioni, non solo nella scelta di casting ma anche nel modo di mettere in scena le due detectives. Rosa, soprattutto, si scontra con il classico stereotipo della donna latinoamericana tutta dedita alle apparenze –ma anche la sua collega Amy non è da meno.
Grazie a personaggi così diversi tra loro e in continua crescita, durante la serie sono continuamente affrontate tematiche importanti, che vanno dal razzismo (4×16, Moo Moo è episodio centrale in questo senso) all’omofobia, dalla situazione nelle carceri agli spari sulla folla e alla regolamentazione delle armi da fuoco; il tutto senza mai perdere il comic relief caratteristico della serie.
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