Nel Partito democratico non c’è fibrillazione solo per il congresso — in realtà abbastanza sonnacchioso — che si concluderà con le primarie del 3 marzo, ma anche, e soprattutto, per il destino dell’ex segretario e ex premier Matteo Renzi.
Renzi si era fatto promotore, nelle ultime settimane, della candidatura a segretario del Pd dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Questa candidatura si presentava come alternativa alla proposta di Zingaretti, più connotata a sinistra, e a quella del segretario uscente Martina. Minniti era insieme sufficientemente indipendente da Renzi e sufficientemente in continuità con i governi Renzi-Gentiloni da poter accontentare tutti. La sua candidatura è però entrata in crisi nel giro di venti giorni — fino all’annunciato ritiro dalla corsa — quando le voci di una possibile uscita dei renziani dal Pd si sono fatte più insistenti e hanno aperto un nuovo, sorprendente scenario: un’ennesima divisione a sinistra e una possibile aggregazione al centro, insieme ai superstiti del centro-destra moderato, del nascente soggetto politico.
La domanda è chiara e a questo punto si presenta nella sua nudità: Renzi uscirà o no dal Pd?
Questa aleggiata decisione dell’ex premier richiama alla memoria almeno un precedente della gloriosa storia della sinistra italiana. Quando nel 1989 l’allora segretario del Partito comunista Occhetto annunciò che il Pci avrebbe cambiato nome e simbolo, infatti, si iniziò a parlare del nuovo partito con il nome vago e allusivo di “la cosa”.
Oggi, con il congresso del Pd in corso e il governo giallo-verde che inizia a impantanarsi, la questione politica dell’esistenza o meno della cosa di Renzi è un aspetto dirimente per capire quali strade prenderà la politica italiana nei prossimi mesi. Almeno dal 2012, prima che Renzi scalasse vittoriosamente il Pd, si parla della possibile fondazione di un nuovo partito. Nel tempo l’idea si è congelata, ma adesso è tornata a prendere campo. Si presenta, in realtà, come una vera e propria mossa del cavallo, capace di scompaginare gli schemi attuali e di aprire nuove prospettive e nuovi spazi di manovra sia all’opposizione anti-populista sia alla carriera stessa di Matteo Renzi.
Un indizio era arrivato durante l’ultima edizione della Leopolda, quando l’ex premier aveva annunciato la costituzione di svariati “comitati civici” in giro per il Paese. Questi comitati erano sembrati, già a fine ottobre, il tentativo di preparare la strada all’eventuale scissione.
Le premesse che porterebbero a questa scelta sono due. Da una parte il Pd versa in uno stato di grave crisi, iniziata con la sconfitta referendaria del 2016 e aggravata dalle ultime elezioni politiche. Il leader che l’ha guidato in questo baratro è stato proprio Renzi, che ha costruito, nel tempo, un partito fortemente personalizzato e saldamente legato alla sua figura. La crisi d’immagine e di consenso dell’ex sindaco di Firenze — negli ultimi mesi a lungo il leader meno apprezzato dagli elettori, secondo i sondaggi — ha coinciso con la crisi del Pd. Oggi nemmeno il congresso, con le sue proposte e le sue annunciate novità, sembra in grado di risollevare il partito: sono gli stessi dirigenti democratici, infatti, ad ammettere il bisogno di idee nuove. Martina, ad esempio, parla della necessità di “un segretario che si dedichi anima e corpo a questa sfida. Una sfida enorme”.
La seconda premessa riguarda gli attuali schemi politici. È indubbio che al centro ci sia un’autostrada di consensi pronta per essere conquistata: l’irreversibile declino di Forza Italia e di Berlusconi, il nascente scontento dei ceti produttivi nei confronti del governo e il sempre più forte movimento d’opinione contro le politiche sovraniste non hanno ancora trovato una voce che li rappresenti con coerenza e continuità. Il Pd orfano di Renzi — magari guidato da Zingaretti — rischierebbe uno slittamento a sinistra che gli precluderebbe ogni dialogo con queste realtà. Realtà senza voce, che qualcuno dovrà rappresentare.
In realtà è il Pd stesso a soffrire per la presenza di Renzi al suo interno. Doveva lasciare la politica se il referendum costituzionale fosse andato male, e non l’ha fatto. Doveva fare il senatore semplice dopo il 4 marzo, e non l’ha fatto. Ogni posizione, ogni iniziativa, ogni proposta si scontra con l’inevitabile domanda: e Renzi che ne pensa? Il Pd, per questo, appare bloccato dalle sue stesse logiche interne, intrappolato in uno sterile dibattito senza fine che oppone renziani e anti-renziani e impedisce qualsiasi soluzione intermedia e alternativa a questa logica. Come, per esempio, la candidatura autonoma ma di area renziana di Minniti. L’ex ministro dell’Interno, nel ritirare la sua candidatura, ha detto a Repubblica, in merito alla scissione:
Spero davvero che nessuno pensi a una scelta del genere. Si assumerebbe una responsabilità storica nei confronti della democrazia italiana. Questo passaggio va oltre la cronaca. Indebolire il Pd significa indebolire la democrazia italiana.
L’ultima faccia della medaglia è la questione europea, direttamente collegata alle elezioni continentali della prossima primavera. Il punto da chiarire è se il nuovo soggetto vedrà la luce prima o dopo l’appuntamento elettorale. Nei giorni scorsi Renzi ha partecipato a una serie di incontri con i leader socialisti e liberali al Parlamento europeo. È stato accompagnato dall’ex sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi, che da molto tempo propone esplicitamente un superamento del Pd.
All’Huffington Post Italia Renzi ha dichiarato:
Dare una mano, con un gruppo dirigente europeo, alla costruzione di un’alleanza larga, anti-sovranista ed europeista, dai socialisti ai libdem ai popolari… Un’alleanza non formalizzata con uno Spitzenkandidat (il candidato di ogni partito alla presidenza della Commissione europea, nda), ma presente nei contenuti.
Questa larga alleanza non può nei fatti limitarsi al solo Pd. Può però essere la base di qualcosa di diverso dal Pd, di qualcosa che vada oltre il Pd: un nuovo partito renziano, un progetto che rimescoli le carte in gioco, una vera e propria mossa del cavallo.