
Quando il giovane Dick Cheney, appena arrivato a Washington, chiede al suo mentore, l’allora deputato Ronald Rumsfeld (Steve Carell), “In che cosa crediamo?”, il suo interlocutore esplode in una fragorosa risata, sbattendogli la porta in faccia. Il film in questione, uscito nelle sale a gennaio, è Vice – L’uomo nell’ombra, diretto da Adam McKay. Ed è questa scena a gettare luce sull’intero film, a rivelarne il senso e a tracciare i contorni della personalità di Dick Cheney, uomo abilissimo e potentissimo, in grado di costruirsi una carriera ultradecennale che lo vide, nell’ordine, capo di gabinetto della Casa Bianca dal 1975 al 1977 con il presidente Ford, segretario alla Difesa dal 1989 al 1993 con il presidente George Bush senior e infine vice presidente dal 2001 al 2009 con George Bush junior.
In Vice è interpretato magistralmente da Christian Bale, capace di rappresentare al meglio un personaggio taciturno e silenzioso come Cheney, e al tempo stesso di restituirne il vero volto di uomo di potere, che si muove nell’ombra e tesse lunghe tele di inganni, mistificazioni, capacità di controllo, fino a irretire anche un presidente — George W. Bush (Sam Rockwell) — descritto come un inetto, un provinciale che si consegna mani e piedi al suo vicepresidente.
Da questo “accordo” di potere si dipana il nucleo centrale del film. Che vice presidente fu Dick Cheney? Accentratore, spietato, onnisciente. Ciò che gli riuscì, a differenza della maggior parte dei vice, fu entrare nel processo decisionale della Casa Bianca, gestire il potere, dettare letteralmente le decisioni. Il sottotitolo di “uomo nell’ombra” si addice pienamente alla questione: dall’ombra, come un burattinaio, Cheney muoveva i fili del governo degli Stati Uniti. Per farlo ci volle un immenso sforzo di uomini e di mezzi, sapientemente orchestrati nei centri decisionali — ministeri, commissioni parlamentari, comitati elettorali, uffici dell’esecutivo.
Il film dipinge Cheney come il Male Assoluto. Questo straordinario potere che riesce ad accumulare giustifica ogni mezzo, ogni azione per produrre ulteriore potere.
La prima questione che Vice mette sul tavolo è di ordine costituzionale. Tra interpretazioni astruse e innovazioni normative, Cheney si rese fautore della teoria del cosiddetto esecutivo unitario: ciò che fa il presidente è per sua natura legale, proprio perché lo fa il presidente. Attraverso questa interpretazione, com’è logico, si può giustificare qualsiasi cosa. Fin dagli anni Ottanta, durante la presidenza Reagan, la teoria dell’esecutivo unitario iniziò a prendere piede e negli anni ha comportato un progressivo rafforzamento dei poteri della presidenza. Questa teoria fu infatti in grado di mettere nelle mani di un potere già di per sé amplissimo una leva realmente in grado di sollevare il mondo.
A ciò si aggiunse, da parte repubblicana, una potente macchina mediatica in grado di influenzare e guidare l’opinione pubblica. Vice, in questo senso, anticipa i temi attualissimi della presidenza Trump e della capacità del Tycoon di entrare nel dibattito politico, rovesciarlo e volgerlo a suo favore. Giornali, televisioni, sondaggi, gruppi di studio: il film dimostra come un nucleo di potere ben consolidato possa fondare le sue decisioni, e la sua stessa permanenza al potere, su una serie di strumenti capaci di indirizzare l’elettorato e spingerlo a chiedere scelte e decisioni altrimenti impensabili.
Tutto ciò non avrebbe senso senza parlare dell’11 settembre. Se Vice è certamente un film di parte e tende con insistenza ad unire fin troppi puntini, nel tentativo di dimostrare l’assoluta nefandezza per il sistema americano della presidenza Bush-Cheney, è indubbio che la guerra in Iraq rappresentò un punto di svolta per la storia degli Stati Uniti. Cheney e i suoi collaboratori riuscirono a creare un collegamento — in realtà fragilissimo — tra Al Quaeda e l’Iraq che giustificò la guerra del 2003 contro Saddam Hussein. Sullo sfondo, ovviamente, gli interessi economici e petroliferi nel Golfo e i legami di Cheney con la Hulliburton, l’azienda del settore per la quale lavorò lungamente in posizioni apicali. È interessante osservare come Vice si spenda nello sforzo di mostrare i meccanismi di potere messi in movimento dall’amministrazione americana per giungere al proprio risultato. In una sola vicenda, infatti, sembrano sommarsi tutte le degenerazioni del sistema americano: esecutivo quasi onnipotente, capacità di indirizzare i media, capacità di manipolare l’opinione pubblica.
Ma in definitiva cosa rimane? Come sempre, un uomo: Dick Cheney. Un giovane scapestrato che dalla provincia fa carriera, arriva a Washington e accumula una grande quantità di potere. Al suo fianco c’è l’ambiziosa e influente moglie Lynne Ann Vincent (Amy Adams). È lei al centro della vita di Cheney ed è lei a guidarlo, consigliarlo, spingerlo.
Allo spettatore italiano, ad un certo punto, sarà naturale tracciare un paragone tra l’americano Cheney e il Giulio Andreotti de Il divo. Come nel memorabile monologo-soliloquio di Toni Servillo emergono inarrestabili — dalla bocca stessa del potere — le crudeli e oscure verità dell’arte di governare: il potere per il potere, il male per realizzare il bene, l’ingiustizia per garantire la sicurezza dei cittadini ignari, gaudenti e menefreghisti. Sorge una convinzione: di alcuni uomini politici, nelle pieghe della Storia, non resta null’altro.