Del: 23 Gennaio 2019 Di: Arianna Preite Commenti: 0

120 anni fa veniva pubblicato uno dei più grandi capolavori della letteratura mondiale, Heart of Darkness di Joseph Conrad. Quest’opera, nonostante nel tempo abbia subìto diverse accuse di razzismo e si apra a una molteplicità d’interpretazioni, aveva come obiettivo la critica nei confronti di ogni spietata forma di colonizzazione e di prevaricazione da parte dei conquistatori sulle terre inesplorate, e in particolare, sulle loro popolazioni native.

Colonizzazione come civilizzazione, in quanto atto di violenza esercitato su popolazioni che, per il solo fatto di essere diverse, vengono ritenute inferiori (“incivili”), e sono quindi fatte oggetto della «missione civilizzatrice» di cui i bianchi si sono autoinvestiti. (Introduzione a Heart of Darkness di Giuseppe Sertoli)

E nonostante sia trascorso del tempo dalle prime colonizzazioni in India, America e Africa ma non solo, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro di oggi, 2019, sembra in qualche modo una reincarnazione di quelle furie cieche del passato (e come lui molte altre personalità del panorama contemporaneo), rispecchiando la visione e l’agire del Kurtz di Conrad. Una figura che è la personificazione della realtà colonialista intesa come politica di conquista, sfruttamento e sterminio. Kurtz, un uomo “vuoto”, che come il Nietzsche degli ultimi anni, sognava per sé un enorme impero privato, al ritorno dal quale tutte le più grandi personalità mondiali l’avrebbero atteso e accolto come un eroe, eroe il cui più grande traguardo sembra quello di appropriarsi della natura, massacrarne i popoli e ridurre tutto ciò che trova ad una mera copia della sua vuota identità.

Una delle riflessioni più importanti contenute in Heart of darkness — e più volte contestata, anche da autori di fama mondiale come Achebe — riguarda il fatto che questo antieroe protagonista sembra aver trovato in queste terre sconfinate e sconosciute la follia, sembra essersi ridotto a un “selvaggio come la terra ed il popolo che lui stesso cercava di ridurre in schiavitù”. Ma la conclusione fondamentale alla quale arriva è che questo tipo di follia sia pericolosa per chiunque si addentri in un universo differente dal consueto, non perché i suoi popoli e le sue terre spingano a diventare selvaggi o folli, ma bensì perché istinti primordiali sono insiti in ogni uomo, e l’allontanarsi dalla cosiddetta civiltà spingerebbe ad abbandonare ogni regime e convenzione sociale per dare sfogo, come succede appunto al protagonista del romanzo, a un abbandono totale a questi istinti di sessualità libera, di violenza senza confini, di vera e propria follia e caduta negli abissi dell’umanità. Questo però non lo assimila in alcun modo ai popoli nativi dei luoghi del Congo, in cui il romanzo è ambientato, ma al contrario lo distanzia da loro, che riescono ad essere umani pur in quelle condizioni in cui sono forzati a una totale assenza di umanità, privati della loro terra, delle loro credenze e del loro stile di vita, costretti ad una stremante danza “del commercio e della morte”.

L’intuizione di Marlow, il personaggio attraverso la cui visione è filtrato il racconto, è il fatto che ogni atto conoscitivo sia sostanzialmente alla base di ogni atto di dominio, e che la conoscenza è essa stessa forma di potere, una forma di potere feroce anche se in maniera diversa, ed “esercitarla nei confronti dell’Altro equivale a esercitare su di esso una violenza che lo espropria della sua identità per attribuirgliene — imporgliene — una diversa ed estranea”. La conoscenza dell’altro da noi e del diverso, come nel caso delle popolazioni indigene brasiliane, implica purtroppo in molti casi un tentativo di comprensione che cerca di ricondurre il loro stile di vita ai nostri schemi interpretativi e razionali, riducendo tutta l’operazione ad un mero processo di manipolazione e di svuotamento, per usare una metafora conradiana.

Come si può quindi conoscere davvero l’altro? Occorrerebbe un’operazione come quella di Kurtz, che si abbandona lui stesso a istinti primordiali, perdendosi? Per lasciare intatte queste identità bisognerebbe quindi evitare di esercitare qualsiasi forma di potere e smettere di pretendere di conoscerle dall’esterno e di sapere cosa sia meglio per loro. Chi siamo noi per ritenerci più “civili” e per sentirci in diritto di usurpare territori e culture? Chi dice che la nostra religione (o non religione) sia meglio della loro?

“Al culmine di sé la (cosiddetta) civiltà si rovescia nel suo contrario: in una barbarie che nell’atto di distruggere l’Altro da sé distrugge se stessa riducendo tutto, uomini e cose, ad un’unica grande carcassa.” (Introduzione a Heart of Darkness di Giuseppe Sertoli)

Senza contare i danni sul piano ecologico, pericolosi non soltanto per il Brasile, ma per l’intero ecosistema globale, viste le volontà del presidente di sacrificare una delle foreste più antiche e fondamentali per il nostro pianeta a coltivazioni intensive e profitti delle multinazionali. Lo stesso atto di costruire, di distruggere i polmoni del mondo che già in un’altra opera del passatoIl crollo — veniva raccontato con estrema lucidità da Chinua Achebe.

Achebe, anch’egli una delle personalità letterarie fondamentali per quanto riguarda la colonizzazione e le riflessioni a riguardo, in un saggio di critica all’opera di Conrad scrive:

Africa is to Europe as the picture is to Dorian Gray — a carrier onto whom the master unloads his physical and moral deformities so that he may go forward, erect and immaculate.

Questa metafora è, molto tristemente, ancora oggi applicabile a molte situazioni. A quella particolare del Brasile si potrebbe ridurre il paragone al contesto interno al paese, ipotizzando il fatto che i territori ancora oggi in possesso degli indigeni siano per il resto del paese lo specchio a cui guardare per sentirsi più “avanzati”, più “progrediti” o semplicemente (e paradossalmente) più giusti.

Arianna Preite
Studentessa di Lettere Moderne.
Mi appassionano le conversazioni stimolanti, ma non le chiacchiere di prima mattina.