Del: 27 Gennaio 2019 Di: Katerina Mavroeidi Commenti: 0
Kavvadias, un viaggio in mare con un poeta greco -Vulcano Statale

Resterò sempre ideale e immeritevole amante dei viaggi lontani e dei mari aperti azzurri

e morirò una sera, uguale a tutte le sere, senza attraversare la vaga linea degli orizzonti

da Mal du départ, di Nikos Kavvadias, 1933

Per quanto i versi sopracitati svelino il destino comune e atteso da tanti marinai del passato, molto probabilmente rappresentano l’esempio più significativo di speranza per un paese come la Grecia. A caratterizzare quest’ultima non è solo il mare e lo stupore che esso desta, ma anche l’esistenza di animi poetici, come quello di Nikos Kavvadias, un poeta unico nel suo genere che trasformò i suoi viaggi in mare in metafore per rappresentare gli avvenimenti politici in Grecia e nel mondo.

Kavvadias fu legato al mare fin da giovane età. Nacque nel 1910 a Nikolsk Ussuriysk, una città della provincia russa, da genitori greci, proprietari di navi. Suo padre possedeva un’azienda commerciale e lavorava principalmente con l’esercito zarista. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, lui e la sua famiglia si trasferirono in Grecia, dove il poeta continuò i suoi studi e cominciò a immergersi nella lettura e a scrivere i suoi primi brani. Finita la scuola, decise di affrontare gli esami per entrare nella facoltà di medicina, ma la morte del padre lo obbligò a lavorare in un ufficio navale.

Continuò a scrivere e collaborare con alcune riviste letterarie, finché non decise di imbarcarsi sulla nave San Nicola, dalla quale mandò i suoi scritti di viaggio ad un giornale che li pubblicò. Il 1933 lo trascorse nella sua città in Grecia ad organizzare saloni letterari, attirando molti intellettuali. Testimonianze parlano di lui come di una persona simpatica, umile e sensibile.

In quegli anni scrisse e pubblicò la sua prima raccolta di poesie Marabù, che racconta le sue avventure nei mari del mondo. L’avvento della seconda guerra mondiale lo costrinse a prestare servizio, ma questo non interruppe il suo lavoro poetico. Durante il dominio tedesco passò alla Resistenza greca, seguendo la sinistra liberale e diventando membro di organizzazioni come il Fronte di Liberazione Nazionale. Poco dopo, però, si imbarcò nuovamente verso i mari orientali e continuò a scrivere. Tra le sue opere più note ci sono, oltre a Marabù, Federio Garcia Lorca (scritto per la morte del noto poeta, vittima della rivoluzione), Poussi, Kuro Siwo.

Dei contenuti della poesia di Kavvadias si può dire tanto, ma si sa che il legame più importante i marinai lo hanno con il mare.

Attraverso le sue parole, il poeta ci porta con sé nei suoi viaggi esotici, compiuti in gran parte dell’Oriente e in particolare nelle zone del sud, dove si trovano i porti più importanti e da cui si possono identificare le costellazioni più indiscernibili. Il poeta amava i viaggi lontani perché erano quelli a dargli la libertà di sognare.

L’abisso azzurro, però, nasconde anche tante difficoltà. Le condizioni di lavoro sulle navi del passato erano crudeli. Kavvadias durante il suo secondo viaggio salì a bordo come operatore radiofonico e in questo modo riuscì a evitare i lavori più duri. A peggiorare la situazione vi erano, inoltre, le condizioni climatiche, in continuo mutamento, e le malattie tropicali, come la ben nota malaria, nominata spesso nei suoi versi. A questi disagi bisogna aggiungere la nostalgia e la solitudine, alle quali unico rimedio erano le prostitute. Tuttavia, non sempre era disponibile una donna pronta a distrarre i viaggiatori. E a volte, almeno le menti più fini come quelle del poeta cercavano  di trascorrere il  tempo osservando le terre straniere e gli altri passeggeri a bordo delle navi. Questi ultimi, arrivati da tutto i mondo per lavorare sulle navi, possedevano delle caratteristiche che ispiravano il poeta a tal punto da diventare gli eroi delle sua poesie. Tra i più celebri vi è il Fuochista negro di Djibuti che, come il poeta racconta, lo raggiungeva nella sua camera dopo il turno per raccontargli fatti assurdi, come ciò che si fumava in Algeria e i suoi effetti.

Per descrivere il suo mondo senza mascherarlo, Kavvadias utilizzava termini crudi. Semplici e puri, volgari e scioccanti. Non si accontentava di termini che dessero un significato simile all’oggetto, ma chiamava tutto con il suo nome. E faceva lo stesso anche con i termini stranieri e quelli del linguaggio dei marinai.

Trascriveva le parole esattamente come le aveva incontrate e non utilizzava traduzioni. In questo modo è riuscito a rendere sicuramente la sua opera originale. Per i lettori greci fu creato un vero e proprio glossario per poter decifrare tali termini, dato che la lingua del mare era spesso macchiata dal sapore del sale. Tante parole utilizzate derivano o sono termini propri dell’italiano: come la botiglia, o il termine abbadonaro (abbandonare), volta, burlare, antenna, virare e molti altri.

E anche se questa cruditè utilizzata nei versi del poeta sembra facile da apprezzare, l’opera di Kavvadias ha iniziato a essere letta e conosciuta molto tardi, solo dopo la sua morte. Al suo successo postumo contribuirono alcuni compositori e cantanti, il più importante tra questi è Thanos Mikroutsikos che diede una nuova vita ai versi conosciuti in precedenza solo da pochi. Le poesie di Kavvadias furono cantate anche da altri come Marisa Koch e Kostas Karalis e Yiannis Spanos. Anche la cantante italiana Milva ha adattato una sua canzone sui versi del poeta, accompagnati dalla musica di Mikroutsikos.

Marabù

Raccontano di me i marinai
che sono uomo ruvido e perverso
che le donne disprezzo in modo truce
e che non me le porto mai a letto.

Che fumo marjuana e tiro coca
che mi possiede orribile passione
che una rete di tratti repulsivi
mi copre ogni centimetro di pelle.

Quei marinai raccontano menzogne
tremende, esagerate, immonde, assurde,
quello che mi ferì fino a morirne
né dissi io, né alcuno capì mai.

Ma mentre cala l’ombra tropicale
e nel grecale volano gli stormi
mi preme riversare, nero inchiostro,
quest’eterna segreta mia ferita.

Viaggiavo in prova, al tempo, su un postale,
tra il Nilo e il meridione della Francia,
lì la conobbi che sembrava un fiore
e un solo sguardo ratto ci comprese.

Sottile, melanconica, elegante,
figlia d’un ricco che s’era ammazzato,
portava il suo dolore con sé in viaggio
sperando le accadesse di scordare.

Leggeva il libro della Baskirceva
e adorava d’Avila la Santa,
citava versi di quei maledetti
e stava a lungo a contemplare il mare.

Io conoscevo solo le puttane
e il cuore mio, da tanto mare affranto,
la gioia ritrovava dell’infanzia
nell’ascoltarne estatico la voce.

Le misi al collo una graziosa croce
lei mi donò un portafoglio in pelle
e mi sentii assai triste quando al porto
giungemmo: non l’avrei mai più rivista.

Ma la pensavo sempre nei miei viaggi,
quasi la mia custode protettrice,
era un sollievo la sua foto a prua,
un’oasi nell’oceano deserto.

Dovrei fermarmi qui, e farei bene,
la mano trema, l’afa mi stordisce,
un afrore di fiori tropicali
sale dal fiume, gracchia un marabù.

Continuerò! In un porto lontano,
in una notte fradicia di whisky,
di birra e gin, ottuso e vacillante,
presi la strada del peggior bordello.

Lì donne spudorate lusingavano
i marinai colpendone il berretto
ridendo, fan così le troie in Francia,
svogliato, a noia, mi lasciai portare

in una stanza lurida e angusta
i muri dall’intonaco sbrecciato,
lei straccio ormai di donna, voce roca
e sguardo perso, e scuro, che ti affoga.

“Spegni la luce” dissi. Fu l’amplesso.
Potei contarle le ossa sopra al cuore.
L’assenzio l’impregnava. Mi svegliai
con l’alba a sparger petali di rosa.

A quella fioca luce del mattino
mi parve tanto triste e dissoluta,
così, a disagio, quasi spaventato,
mi venne fretta di pagarla e andare.

Dodici franchi. Lei cacciò uno strillo
guardando il portafoglio spiritata
e io restai di sasso quando quella
dal pugno mostrò penderle una croce.

Scordai il berretto uscendo come un pazzo,
un folle che barcolla eternamente,
mi porto dentro un sangue avvelenato
che mi tormenta, affanna, mi punisce.

Raccontano quei marinai giù al porto
che con le donne sono rude, ostile,
che sono un brutto ceffo, tiro coca,
sapendo scuserebbero, di certo.

Rimango qui, stordito dalla febbre,
a osservare un marabù che fisso
giù dalla riva immobile mi guarda:
io pazzo e solitario gli assomiglio.

Nikos Kavvadias
(traduzione di Alberto Marchetti)

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Katerina Mavroeidi
Sono una greca che studia lingue straniere a Milano. Amo l’arte e il cibo della nonna.