Del: 13 Gennaio 2019 Di: Letizia Gianfranceschi Commenti: 1

Lo scorso 10 gennaio il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha inaugurato il suo secondo mandato, che dovrebbe durare fino al 2025.
I migranti venezuelani emigrati in Colombia si aspettano “altri sei anni di sofferenza”, come raccontano al periodico colombiano El Tiempo.

Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono tre milioni coloro che senza possibilità, risparmi, generi alimentari, medicinali, istruzione e beni di prima necessità, hanno dovuto lasciare il Venezuela negli ultimi anni.

La sinistra chavista aveva promesso ben altro ai venezuelani. Il Venezuela di Maduro, però, non è più quello di Chávez.

Quattro anni dopo il suo arrivo al potere, Hugo Chávez dovette affrontare un colpo di stato da parte delle forze armate, che lo destituirono per evitare la creazione di una nuova Cuba. Era il 2002 e allora un’immediata mobilitazione popolare determinò il reinsediamento al potere del leader bolivariano e l’avvio di una fase di radicalizzazione. Chávez aveva annunciato con determinazione di voler realizzare un socialismo democratico e umanista attraverso una rivoluzione “bolivariana e antimperialista”. Il riferimento politico-culturale è sempre stato Simón Bolívar, leader indipendentista venezuelano che combatté per liberare l’America Latina dalla corona spagnola e — non a caso — da tutti ricordato come “libertador”.

Il chavismo è entrato a far parte della storia dei movimenti politici latinoamericani, caratterizzato com’era dall’ibridazione tra nazionalismo militare, personalismo e solidarismo.

Quest’ultimo elemento presupponeva una solidarietà di classe e l’aspirazione alla redenzione degli oppressi attraverso l’espansione del ruolo dello Stato in economia, senza però concedersi alleanze interclassiste — come invece presupponeva il populismo classico degli anni Trenta. Le critiche, certo, c’erano anche allora. In tutto il mondo ci si chiedeva se Chávez fosse un dittatore, un benefattore o un abile populista carismatico.

Alle critiche, i sostenitori rispondevano con un’altra domanda: perché non si accetta che i venezuelani abbiano scelto Chávez perché volevano proprio lui?

Alla sua morte, Chávez ha lasciato al suo erede Maduro il compito di proseguire il progetto da lui avviato. Oggi, però, la legittimità del suo secondo mandato è messa in discussione.
I dubbi non riguardano solo le elezioni che lo hanno confermato, benché anche su quelle ci sarebbe da discutere. La vittoria dello scorso maggio, con il 68% dei consensi, è arrivata in un contesto elettorale turbolento, scosso dai presunti brogli e da un’affluenza scarsissima (48% secondo i dati ufficiali, 30% secondo quelli delle opposizioni e degli indipendenti), comunque non in grado di superare la soglia del 50%+1.

La categoria di amico/nemico è da sempre la più rilevante in politica.

Nessuno dei governi latinoamericani che hanno aderito Gruppo di Lima riconosce la legittimità del nuovo mandato, tranne uno: il Messico. Da giorni, infatti, il presidente Andrés Manuel López Obrador aveva annunciato che un proprio rappresentante sarebbe stato presente al giuramento. Mentre Maduro riceveva la fascia presidenziale dal presidente del Tribunale supremo di giustizia, ad assistervi vi erano solo 4 presidenti latinoamericani su 19.

Oggi Maduro di amici ne ha pochi. Tra questi vi sono alcuni soliti noti: la Cina, la Russia, la Turchia e Cuba ma, a parte loro, in molti lo hanno abbandonato, in America Latina e altrove. Si tratta, innanzitutto, dei milioni di venezuelani che sono scappati dalla miseria, dall’inflazione alle stelle, dalla carenza di servizi basici e dalla disoccupazione. Ci sono i membri del movimento studentesco che in settimana hanno manifestato contro il giuramento.

Tra i nemici di Maduro c’è anche il Parlamento, dove l’opposizione ha la maggioranza. Jaun Gaidò — che lo presiede — ha lanciato un appello per una “massiccia mobilitazione popolare” il prossimo 23 gennaio. L’obiettivo è convocare nuove elezioni.

È passato il tempo in cui c’era chi si chiedeva chi ha mandato in rovina il Venezuela. La caduta del prezzo del petrolio spiega solo in parte la crisi politica e istituzionale degli ultimi anni, benché l’economia venezuelana si basi – in gran parte – proprio su questa risorsa. Dopo tutto, i paesi latinoamericani sono abituati alle sofferenze legate ad economie che dipendono, troppo spesso, solo dall’esportazione di materie prime. La década dorada latinoamericana (2004-2014) — il decennio di generalizzata crescita economica favorita, in primis, dall’aumento dei prezzi delle materie prime esportate — non poteva durare per sempre. Con essa è finita un’epoca, la recessione si è ripercossa sull’elettorato e in molti paesi della regione si è diffusa l’indignazione per la corruzione generalizzata della classe politica e le intollerabili disuguaglianze. Eppure, nessun paese latinoamericano ha vissuto un esodo di massa lontanamente paragonabile a quello che il Venezuela vive oggi.

In molti, ormai, pensano di sapere chi ha la responsabilità politica del disastro venezuelano.

Per Trump, ad esempio, è tutta colpa del socialismo. Per alcuni analisti, è colpa della corruzione dei vertici politici e militari. Per Maduro la colpa è da attribuire all’imperialismo nordamericano, come ha ricordato anche nel suo discorso inaugurale.

Di certo, se le cose non cambieranno saranno sei anni molto lunghi per il Venezuela. I venezuelani sono già in attesa.

Letizia Gianfranceschi
Studentessa di Relazioni Internazionali. Il mondo mi incuriosisce. Mi interesso di diritti. Amo la letteratura, le lingue straniere e il tè.

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