
Wislawa Szymborska se ne andava il primo febbraio di sette anni: una poetessa e attivista politica e sociale, ma prima di tutto una donna polacca.
Nata nel 1923 a Bnin, nei pressi di Poznan, e cresciuta a Cracovia, ha imparato sin da piccola a convivere con la guerra, la morte (quella del padre durante la sua infanzia) e mille difficoltà: allo scoppio della seconda guerra mondiale nel ‘39 è costretta a proseguire gli studi liceali seguendo corsi clandestini. Per evitare le deportazioni lavorerà come dipendente nelle ferrovie, e quando inizia l’università non potrà conseguire la laurea perché le difficoltà economiche la costringeranno a lavorare per sostentarsi.
Alla pubblicazione della sua prima poesia nel ‘45, Cerco la parola, il caporedattore Adam Wlodek considerò il testo troppo semplice, “di modesto valore, così modesto che a noi non sembrava possibile utilizzarla”. In quel momento nessuno sapeva che quello sarebbe stato l’esordio poetico di un futuro premio Nobel, e Wislawa non poteva sapeva che Wlodek l’avrebbe sposata.
Nel decennio successivo la sua carriera sembra in crescita perenne: arriva a dirigere la sezione di poesia del settimanale letterario di Cracovia, anche grazie alla sua vicinanza al governo. Sulla sua gioventù socialista in cui produsse poesie intrise di ideologia (addirittura una intitolata Stalin) tornò a parlare in età avanzata, dichiarando: “Me ne pento. Ma, d’altra parte, anche questo fa parte delle mie esperienze, il che significa che a volte ci mancano conoscenza e immaginazione”.
Dal 1966 la grande svolta di pensiero, registrata in Appello allo Yeti. L’uscita dal partito, che le costerà la perdita della sua posizione alla rivista. L’avvicinamento a partiti e associazioni di intellettuali in opposizione al regime comunista polacco, che la porterà a combattere strenuamente contro la censura imposta alla cultura in Polonia.
Dopo vari riconoscimenti e premi minori o locali, il Nobel arriva nel ‘96 presentandola al mondo occidentale, in cui prima di allora era nota a “due su mille”.
Da allora Wislawa diventerà una delle poetesse più amate e popolari, lei che aveva fatto della sua poesia un antidoto alla massificazione, dando valore all’individuale.
Il giudizio che il suo primo marito aveva dato del suo lavoro aveva un che di esatto: quello che colpisce leggendo la Szymborska è la semplicità, la quasi elementarità del suo stile, che attinge a elementi e oggetti comuni per farne il simbolo di una condizione universale, e per parlare dei temi più grevi con la leggerezza della quotidianità.
Anche i nomi perdono lo statuto esistenziale che siamo soliti attribuire loro, come si legge in Vista con granello di sabbia: “Lo chiamano granello di sabbia/ ma lui non chiama se stesso né granello né sabbia:/ fa a meno di un nome generale individuale”.
Il suo talento è quello di trasformare l’ordinario in straordinaria sorpresa, come nella poesia in cui la cipolla diventa il modello di perfezione esistenziale per l’uomo: “La cipolla è un’altra cosa,/ interiora non ne ha./ Completamente cipolla fino alla cipollità”.
Il linguaggio si fa semplice e il verso libero, per aprirsi all’occhio del lettore più inesperto, ma le si farebbe un torto a leggerla su un piano superficiale:
la sua forza risiede proprio nella celebrazione di come l’unicità dell’individuale faccia la semplicità di un insieme generale.
Solo lei è in grado di farci notare come la gioia, la grande gioia di vivere, il succo di felicità disponibile all’uomo, risieda nei momenti cui prestiamo meno attenzione: in due persone che prendono un caffè a un tavolino rotondo, in una donna che riceve dei fiori, nel chiudere una valigia in vista di una partenza.
Eccone un esempio:
In rime banali
È una gran gioia: fiore accanto a fiore,
i rami degli alberi nel cielo puro,
e una più grande: domani è mercoledì,
arriverà una tua lettera di sicuro,
e ancora più grande: tema la busta,
è buffo leggere nelle macchie del sole,
e ancora più grande: solo una settimana,
ormai soltanto quattro giorni d’attesa,
e ancora più grande: la valigia
l’ho chiusa con mia vera sorpresa,
e ancora più grande: un biglietto
per le sette, sì, grazie signora,
e ancora più grande: nel finestrino
i paesaggi corrono velocemente,
e ancora più grande: è più buio, è buio,
stasera saremo insieme finalmente,
e più grande ancora: apro la porta,
e più grande ancora: quando lì davanti,
e ancora più grande: fiore accanto a fiore.
– Perché ne hai comprati cooosì tanti?
Una poesia antiretorica, antisublime ma da sottrarre alla banalizzazione: un uso dell’ironia sottilissimo per smontare quello che vediamo e un’esaltazione della parola che può avere infinite sfumature diverse.
Proprio per questo, per cogliere queste sfumature, come disse nel suo discorso di accettazione del Nobel, “i poeti avranno sempre molto da fare”.