
“Sono nato a Forlì una cinquantina (abbondante) di anni fa. Abito in una casa piena di donne con Alessandra (mia moglie), Elisa (quando c’è che ormai è sempre via) e Francesca (quando c’è che di solito è chiusa da qualche parte con le cuffie nelle orecchie)”.
Così Massimo Mantellini, giornalista per alcune delle principali testate italiane come Il Sole 24 Ore, L’Espresso, Il Post, e scrittore, si presenta sul suo blog personale. Nel 2018 è uscito per Einaudi il suo ultimo libro “Bassa risoluzione”, un piccolo e appassionato saggio di cultura digitale che si diverte a raccontare usi e costumi informatici attraverso le opere di Morselli, Parise, Banksy, Gnoli e Matisse. E così, infatti, scrive nel suo blog: «Mi interessa da sempre la tecnologia e la cultura digitale. Sono in rete da molto prima di quasi tutti voi».
Il titolo è enigmatico eppure essenziale, imprescindibile.
Mantellini infatti è proprio da qui che inizia, prendendo per mano il suo pubblico di lettori, per accompagnarlo in una lenta e profonda riflessione. Perché con “Bassa risoluzione” non si riferisce direttamente a qualcosa di prettamente tecnico o digitale ma al mondo intero: Internet ed il reale nelle loro infinite declinazioni. L’altrove digitale diventa quindi il pretesto che Mantellini sfrutta per riflettere sulla passiva accettazione del mondo che cambia. Una sorta di incredulità nei confronti del presente.
Viviamo in una società istantanea, basata su rigide regole di velocità, che potremmo definire totalmente votata alla riduzione, che sceglie metodi, azioni e sensazioni che tendono a una progressiva semplificazione qualitativa.
L’architettura è immensa ma la struttura, seppur aperta, è basata sulla responsabilità individuale. Siamo noi infatti a decidere chi voler far entrare la mattina ad illuminare lo schermo sul nostro comodino, decidiamo noi cosa sapere e cosa comunicare, perché la nostra voce, e tutte le altre, possono ormai riecheggiare in migliaia di schermi e raggiungere infinite persone. Veloci. Immediate. Istantanee.
Un esempio facile ma efficace ne è la musica. Al giorno d’oggi siamo abituati ad ascoltarla ovunque ed in qualsiasi modo: su mp3, con le cuffie, dentro un bar, con il telefono, prima di dormire e perfino durante una corsa frettolosa all’inseguimento di un tram non rinunciamo al piacere dei nostri auricolari. Mantellini sottolinea come sia proprio in questa immediatezza che va a perdersi l’azione umana e fa i complimenti a chi ancora esce di casa e si dedica alle piccole azioni: comprare un giornale, provare delle scarpe o fare una passeggiata lungo la strada e riesce a rinunciare alla straordinaria e mortale semplificazione di un clik.
Anche l’arte e la cultura, specchi di epoche e pensieri, riproducono questa riduzione; non troviamo più (o difficilmente) in dipinti, chiese o sculture la complessità di un tempo. Al loro posto poche linee, pochi colori, forme essenziali. Riduzione. Specchio della nostra velocità, della nostra massacrante immediatezza.
Forse sarebbe necessario cercare di capire se sia la tecnologia, l’innovazione, che ci ha reso “ridotti” o se da sempre siamo noi naturalmente portati ad essere a “bassa risoluzione”.
Perchè dentro questa riduzione ci sono scintille scoppiettanti di intelligenza e novità che spesso però vengono confuse e convertite all’iconografia della nostra vita al cellulare. Ormai abbiamo cambiato il nostro approccio con la vita, non siamo più immersi nelle nostre azioni, nel nostro sentire o parlare ma troviamo il valore in cose e qualità, appunto, ridotte.
Ogni nonna, almeno una volta nella vita ci ha deliziato mostrandoci le foto della sua vita. Venti forse trenta foto di momenti importanti, significativi, ai quali hanno riservato un posto d’onore nei loro ricordi e che altrettanto faranno le generazioni future. Noi di foto ne facciamo ogni giorno. Tanto che abbiamo più foto che ricordi, collezionate in un grande album che opera una riduzione complessiva delle cose e che le trasforma in fenomeni oggettivi privati del loro valore, scappato altrove, da un’altra parte.
Forse dovremmo allora smettere di inseguire sempre il low-cost, il comodo e l’immediato ma provare di nuovo ad entrare nelle cose, percepirle ad “alta definizione”. Dovremmo provare il panino con il gusto di quel posto, comprare un profumo con l’aroma di un ricordo e delle scarpe dopo un viaggio che ci ricordino di quanta strada abbiamo fatto. Capire l’importanza delle esperienze, dei sapori e dei gesti di ogni luogo.
Di trovare un compromesso tra la tendenza e la superficialità, data dalla moltitudine tecnologica, ed il particolare, il dettaglio. Approfondire ed appassionarsi il più possibile per cercare di gestire questa generale, tragica riduzione e per vivere un po’ meno a “bassa risoluzione”.