La rivincita dell’apparato. Se la storia della sinistra fosse un romanzo e se la vittoria di Nicola Zingaretti alle primarie ne fosse un capitolo, “la rivincita dell’apparato” sarebbe un titolo perfetto.
Zingaretti è infatti uno degli ultimi esponenti della gloriosa tradizione del Partito comunista, all’interno del quale guidò la Fgci, l’organizzazione giovanile. Passò poi di partito in partito, di leader in leader — tutta la filiera: Pci-Pds-Ds-Pd — fino ad arrivare prima alla guida della provincia di Roma e poi della regione Lazio. Tanto nel 2013 quanto nel 2018, mentre il centro-sinistra perdeva nelle elezioni politiche, le sue coalizioni vincevano in controtendenza.
Dopo aver lanciato la sua candidatura alla guida del Pd all’indomani della disfatta del 4 marzo, Zingaretti ha iniziato una lunga campagna che ha evidenziato le sue due principali caratteristiche: la mitezza del carattere e l’apparente radicalità delle proposte.
Il suo Partito democratico si presenta innanzitutto più spostato a sinistra.
Questo slittamento è nei fatti: dopo quasi cinque anni di regno di Matteo Renzi e dei suoi è inevitabile che le posizioni neocentriste, o almeno quelle più evidenti, vengano abbandonate. E dunque porte aperte alla sinistra. Lavoro, scuola, cultura, ambiente, investimenti pubblici: ricette tradizionali ma sempreverdi. Il Sole 24 Ore l’ha già chiamata “Zinganomics” e ha evidenziato, raccogliendo le dichiarazioni dei collaboratori del governatore del Lazio, i tre principali punti programmatici: “il progresso socio-economico e territoriale sostenibile, la redistribuzione e l’equilibrio finanziario”. In più, la volontà di tutelare le fasce più deboli della società: i precari, i disoccupati e i giovani lavoratori sfruttati, a partire dai riders.
Come non vedere le assonanze della piattaforma di Zingaretti con il nuovo corso socialista che sta conquistando la sinistra americana?
Per andare avanti, però, è sempre necessario fare i conti con il passato. E dunque con Renzi, che rappresenta nel centro-sinistra non solo un passato ingombrante ma anche un presente indisciplinato e riottoso. Dopo aver fugato in qualche modo le voci che lo volevano promotore di una scissione dal Pd, per il momento Renzi nicchia: gira l’Italia per presentare il suo libro e prova a ritrovare il consenso perduto. È all’angolo, senza potere e senza poltrone, ma sa che nel passaggio decisivo delle elezioni europee il suo ruolo e il suo rapporto privilegiato con Macron saranno fondamentali.
Nel primo discorso del neosegretario si sono già viste le tracce di questa discontinuità. Un lungo elenco di “grazie” e di promesse, a partire da quella ai delusi che “sono tornati e stanno tornando”. In più, Zingaretti ha tenuto a sottolineare con forza le due parole fondanti del suo Pd: “Unità e ancora unità, cambiamento e ancora cambiamento”, ha detto.
Dopo anni di freddezze, incomprensioni ed errori appare necessario ristabilire una connessione valoriale con il popolo del centro-sinistra.
Nel discorso di Zingaretti in molti hanno ravvisato buone dosi di veltronismo e, soprattutto, prodismo. Non è mancata la retorica della stagione dell’Ulivo come momento di massima e migliore espressione del centro-sinistra di governo. In questo Zingaretti è stato chiaro: niente abiure del passato — nemmeno di quello renziano — e sforzo per prendere il meglio delle esperienze degli ultimi decenni. Non a caso nel dibattito pubblico con l’avvento di Zingaretti è tutto un riapparire di volti che fino a pochi mesi fa erano considerati rottamati da Renzi: Bersani, Letta, persino Prodi.
La nostalgia e il richiamo ai fasti del passato non possono però bastare al nuovo Pd di Zingaretti. È necessario trovare proposte chiare e slogan efficaci in grado di fare breccia attraverso la comunicazione. Anche se Di Maio e i cinque stelle si stanno indebolendo da soli, è da escludere che Salvini possa finire, in un futuro prossimo, per imitarli. E dunque, per batterlo, nella guerra politica che verrà all’interno della cornice del rinnovato bipolarismo destra-sinistra — che lo stesso Zingaretti ha evocato — serve una grande capacità di tenere la scena. E serve soprattutto recuperare i ceti popolari che si sono allontanati ormai da anni dai partiti del fronte progressista e riformista. Non è un mistero: al di là della discriminante ideologica, una larga parte dell’elettorato di operai e lavoratori che un tempo votava a sinistra, si è spostato sul popolare e “più concreto” Matteo Salvini. Zingaretti dovrà provare a recuperarli, e non sarà facile.
Il vento sta cambiando e anche la manifestazione anti-razzista di Milano è un segnale chiaro.
Il Pd, ammaccato e zoppicante, ha l’inaspettata possibilità di rimettersi in carreggiata. Zingaretti è consapevole della straordinaria occasione, come dimostra il suo continuo evidenziare lo stato in cui il Pd versava appena un anno fa. Era dato per morto, le primarie hanno dimostrato che è solo moribondo.
Non basteranno, però, le formule del passato, dall’Ulivo a Prodi all’antifascismo. Il direttore de L’Espresso Marco Damilano è stato molto chiaro:
Di fronte a questa destra che c’è, aggressiva, intollerante, ideologica, la sinistra non potrà più presentarsi con una non-identità, una somma di buon senso e tradizioni consunte, dovrà trovare la sua parola da ripetere nelle campagne di comunicazione e nei mondi vitali, così come ha fatto Salvini negli anni della sua ascesa elettorale. Per la sinistra c’è a disposizione una parola mai sfiorita, l’uguaglianza che Norberto Bobbio ha indicato come il dna originario.
Non sarà certo facile ripensare il centro-sinistra da zero, ma andrà fatto. Un primo banco di prova saranno le elezioni europee, con il loro enorme carico simbolico. Zingaretti ha l’occasione di dare un’ulteriore spinta verso il ridimensionamento dei cinque stelle e il ritorno del bipolarismo destra-sinistra. Dopo, potrà giocare tutte le sue carte e persino chiedere nuove elezioni. Ma prima deve rispondere a una domanda: avrà la forza di essere l’anti-Salvini?