Esattamente duecento anni fa, nel 1819, un giovane di vent’anni componeva nella cittadina di Recanati una poesia dal titolo pretenzioso, destreggiandosi con sicurezza tra le tematiche dello spazio, del luogo e del pensiero, in rapporto alla loro immensità; questo componimento fu destinato a diventare uno dei capisaldi non solo della produzione letteraria italiana, bensì dell’intera letteratura mondiale.
Il giovane si chiama Giacomo Leopardi e la poesia si intitola L’Infinito.
Pubblicata per la prima volta nella rivista Nuovo Ricoglitore nel 1825, viene riproposta con qualche modifica nelle successive raccolte di Leopardi, fino alla definitiva edizione dei Canti, uscita postuma nel 1845 e curata dall’amico Antonio Ranieri. L’Infinito è un idillio, la tipologia di canto che trae il suo nome dalla parola greca εἰδύλλιον, “piccolo quadro”, e che Leopardi sceglie per trattare situazioni, affezioni e avventure dell’io lirico: appartengono a questa categoria anche La sera del dì di festa, Alla luna, Il sogno e La vita solitaria, tutte composte tra il 1819 e il 1821.
A differenza della sezione precedente, le Canzoni, il fuoco della scrittura di questa poesia non è più centrato sull’eroismo, bensì sull’Io lirico. Servendosi dell’endecasillabo sciolto, Leopardi affida a soli quindici versi il compito di raccontare un episodio in cui un ostacolo – una siepe posta davanti all’autore – che potrebbe limitargli le facoltà di vedere o di pensare, lo spinge invece a perdersi in un mare di immaginazioni, dando vita a una riflessione cantata sull’infinito, che non l’avrebbero colto se avesse avuto uno scenario già dato.
Allo sguardo diretto subentra, dunque, lo sguardo dell’anima, in cui la vista viene sostituita con la fantasia e il vuoto è riempito dall’infinito. L’inventiva dell’individuo si fa strada al posto della visuale impedita.
L’Infinito è infatti un unicum nel sistema dei Canti leopardiani, poiché non assume toni nichilisti, non c’è tragicismo nelle sue rime, né dolore: il naufragio in questo mare di pensieri è dolce e simboleggia la volontà positiva dell’autore e dell’uomo di perdersi nell’immaginare l’infinito.
Non è casuale la fortuna che ha investito questa poesia nel corso dei due secoli passati. Essa viene ancora letta e riletta, studiata e ristudiata, perché il suo contenuto è sempre attuale: ognuno di noi si è fermato almeno una volta, di fronte a un ostacolo, a immaginare qualcosa di nuovo, trovando ciò che stava cercando.
Illustrazione di Ludovica Marani.