
Cosa significa essere rivoluzionarie in Paesi in cui le donne rischiano quotidianamente la vita proprio in quanto donne? Il documentario I am the revolution, promosso da Possible Film, lo racconta attraverso gli occhi di tre donne leader, simbolo della speranza di cambiamento in Iraq, Siria, Afghanistan.
Guerre, fondamentalismo e il regime talebano hanno ridotto le donne a una condizione di schiave in casa, schiave cui viene negata un’istruzione e cui viene imposto dai familiari il matrimonio, in giovanissima età, con un uomo che nella maggioranza dei casi le farà vivere in uno stato di terrore e violenze socialmente accettato. L’Afghanistan è stato definito nel 2015 da CISDA (Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane) “il posto peggiore al mondo per nascere donna”: l’imposizione del matrimonio tocca infatti il 60-80% delle donne, spesso tra i 10 ed i 14 anni; il 62% di queste donne subisce violenze fisiche o sessuali che non può denunciare, dato che lo stupro è considerato un disonore per la vittima che spesso sconta in carcere la pena al posto dei suoi aggressori.
Due soprattutto sono i punti per cui queste donne lottano, come spiegato dalla regista, Benedetta Argentieri:
Al primo posto educazione e istruzione, attraverso cui puoi pensare di aiutare un’altra persona e di formare una comunità.[…] Un altro tema è quello della parità di genere che, da come si vede nel film, attraverso un coinvolgimento degli uomini diventa una soluzione condivisa e non un’imposizione da una parte o dall’altra.
Protagoniste del documentario sono tre donne: Yanar Mohammed, fondatrice dell’Organizzazione per la Libertà delle Donne in Iraq, Rojda Felat, il comandante delle Forze Siriane Democratiche che ha sconfitto l’Isis a Raqqa, e Selay Ghaffar, leader del partito della Solidarietà dell’Afghanistan. Agiscono in Paesi e in realtà diverse, ma condividono lo stesso scopo: aprire gli occhi alle donne, far loro capire che la situazione in cui vivono non è e non deve essere accettabile, permettere loro di perseguire una scelta volontaria senza temere per la propria incolumità.
Guidare, insomma, una “rivoluzione delle donne”, che passi di villaggio in villaggio e che sia portata avanti da una comunità di donne, così che nessuna debba più fuggire di casa e sentirsi sola nella propria battaglia.
Gli approcci e i metodi per portare avanti la rivoluzione devono necessariamente essere diversi in ogni Stato: se la campagna della Ghaffar passa per la politica, proponendo un’alternativa democratica che parta dal basso, dalle manifestazioni di donne sempre a rischio di attentati, l’azione della Felat è armata e, attraverso le sue Ypj, le “Unità Femminili di combattimento”, mostra alla Siria e al mondo intero che alla lotta per la liberazione dai tiranni possono e devono partecipare anche le donne. All’interno delle Ypj non si apprende solo a impugnare un fucile: altrettanto importante è l’addestramento teorico, che prevede lo studio della Mesopotamia e della sua storia, ma anche dell’economia, delle vicende delle donne a livello internazionale e dei movimenti femministi.
Felat non solo guida un esercito di 60.000 tra uomini e donne e ha difeso il Paese dalla minaccia dello Stato Islamico e dagli attacchi della Turchia di Erdogan: è anche la dimostrazione che non tutte le donne in Medio Oriente sono vittime impotenti, ma che esiste anche una realtà di donne che hanno una voce, e sono in grado di sedere in mezzo a un gruppo di uomini integralisti e pretendere di essere ascoltate. La loro forza è un esempio per tutte: e difatti molte donne partono dai propri Paesi per andarsi a unire a queste comunità: nelle Ypj si sono arruolate anche molte donne italiane.
Fanno paura perché sono determinate, coraggiose, spudorate, e perché riescono sempre più a istruirsi.
Sono femministe? Certo. Come sentiamo dire nel film Yanar Mohammed: «Molti amici sostengono sia solo una femminista. Io rispondo chiedendo loro come si possa utilizzare la parola “solo” nella parte del mondo in cui tutte le donne sono schiave»