Del: 21 Aprile 2019 Di: Michela La Grotteria Commenti: 0
I am the revolution

Cosa significa essere rivoluzionarie in Paesi in cui le donne rischiano quotidianamente la vita proprio in quanto donne? Il documentario I am the revolution, promosso da Possible Film, lo racconta attraverso gli occhi di tre donne leader, simbolo della speranza di cambiamento in Iraq, Siria, Afghanistan.

Guerre, fondamentalismo e il regime talebano hanno ridotto le donne a una condizione di schiave in casa, schiave cui viene negata un’istruzione e cui viene imposto dai familiari il matrimonio, in giovanissima età, con un uomo che nella maggioranza dei casi le farà vivere in uno stato di terrore e violenze socialmente accettato. L’Afghanistan è stato definito nel 2015 da CISDA (Coordinamento Italiano di Sostegno alle Donne Afghane) “il posto peggiore al mondo per nascere donna”: l’imposizione del matrimonio tocca infatti il 60-80% delle donne, spesso tra i 10 ed i 14 anni; il 62% di queste donne subisce violenze fisiche o sessuali che non può denunciare, dato che lo stupro è considerato un disonore per la vittima che spesso sconta in carcere la pena al posto dei suoi aggressori.

Due soprattutto sono i punti per cui queste donne lottano, come spiegato dalla regista, Benedetta Argentieri:

Al primo posto educazione e istruzione, attraverso cui puoi pensare di aiutare un’altra persona e di formare una comunità.[…] Un altro tema è quello della parità di genere che, da come si vede nel film, attraverso un coinvolgimento degli uomini diventa una soluzione condivisa e non un’imposizione da una parte o dall’altra.

Protagoniste del documentario sono tre donne: Yanar Mohammed, fondatrice dell’Organizzazione per la Libertà delle Donne in Iraq, Rojda Felat, il comandante delle Forze Siriane Democratiche che ha sconfitto l’Isis a Raqqa, e Selay Ghaffar, leader del partito della Solidarietà dell’Afghanistan. Agiscono in Paesi e in realtà diverse, ma condividono lo stesso scopo: aprire gli occhi alle donne, far loro capire che la situazione in cui vivono non è e non deve essere accettabile, permettere loro di perseguire una scelta volontaria senza temere per la propria incolumità.

Guidare, insomma, una “rivoluzione delle donne”, che passi di villaggio in villaggio e che sia portata avanti da una comunità di donne, così che nessuna debba più fuggire di casa e sentirsi sola nella propria battaglia.

Gli approcci e i metodi per portare avanti la rivoluzione devono necessariamente essere diversi in ogni Stato: se la campagna della Ghaffar passa per la politica, proponendo un’alternativa democratica che parta dal basso, dalle manifestazioni di donne sempre a rischio di attentati, l’azione della Felat è armata e, attraverso le sue Ypj, le “Unità Femminili di combattimento”, mostra alla Siria e al mondo intero che alla lotta per la liberazione dai tiranni possono e devono partecipare anche le donne. All’interno delle Ypj non si apprende solo a impugnare un fucile: altrettanto importante è l’addestramento teorico, che prevede lo studio della Mesopotamia e della sua storia, ma anche dell’economia, delle vicende delle donne a livello internazionale e dei movimenti femministi.

Felat non solo guida un esercito di 60.000 tra uomini e donne e ha difeso il Paese dalla minaccia dello Stato Islamico e dagli attacchi della Turchia di Erdogan: è anche la dimostrazione che non tutte le donne in Medio Oriente sono vittime impotenti, ma che esiste anche una realtà di donne che hanno una voce, e sono in grado di sedere in mezzo a un gruppo di uomini integralisti e pretendere di essere ascoltate. La loro forza è un esempio per tutte: e difatti molte donne partono dai propri Paesi per andarsi a unire a queste comunità: nelle Ypj si sono arruolate anche molte donne italiane.

Fanno paura perché sono determinate, coraggiose, spudorate, e perché riescono sempre più a istruirsi.

Sono femministe? Certo. Come sentiamo dire nel film Yanar Mohammed: «Molti amici sostengono sia solo una femminista. Io rispondo chiedendo loro come si possa utilizzare la parola “solo” nella parte del mondo in cui tutte le donne sono schiave»

Michela La Grotteria
Made in Genova. Leggo di tutto per capire come gli altri vedono il mondo, e scrivo per dire come lo vedo io. Amo le palline di Natale, la focaccia nel cappuccino e i tetti parigini.

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