Del: 24 Aprile 2019 Di: Lorenzo Rossi Commenti: 0

La Belt and Road Initiative (BRI), all’inizio conosciuta come il progetto One Belt One Road (OBOR) e divenuta famosa in Italia con il nome di Nuova Via della Seta è un immenso piano di investimenti infrastrutturali multi decennale – completamento previsto nel 2049 – con l’obiettivo di ridisegnare l’impegno commerciale della Cina nel mondo e di cui i principali investitori sono le più grandi banche cinesi e asiatiche.

Annunciata nel 2013 da Xi Jinping, l’iniziativa darà numerosi vantaggi alle multinazionali cinesi; costruirà infrastrutture in Asia, Africa, Europa e Medio Oriente; creerà nuovi mercati per prodotti prevalentemente cinesi ma anche stranieri. Non è solo l’imminente tappa degli sforzi della Cina dalla mentalità “Go Global” assunta negli anni ‘90 per espandere la sua influenza commerciale e politica internazionale a livelli colossali, ma è anche una strategia per rispondere alla crisi di sovrapproduzione di cui il colosso asiatico soffre.

Con Belt and Road si intendono rispettivamente: un corridoio di terra che attraversa l’Asia centrale prima di raggiungere l’Europa, collegando due delle maggiori economie del mondo ed emergendo come un importante corridoio logistico che creerà nuove opportunità sia come polo di trasbordo sia come fornitore di materie prime; una rotta marittima che attraversa l’Asia sud-orientale, l’Asia meridionale, il Medio Oriente e l’Africa orientale, una regione che ospita il 42% della popolazione mondiale e il 25% del suo PIL, esclusa la Cina.

Queste due macroaree verranno inoltre ulteriormente suddivise, portando alla creazione di sei corridoi economici che collegheranno più di 60 Paesi, il 69% della popolazione e il 51% del PIL dell’intero pianeta.
Si tratta del progetto economico più massiccio mai ideato.

 

 

La BRI non ha solo fini geopolitici, ma è stata pensata per rispondere a due importanti crisi del sistema cinese.
In primo luogo, la Cina è intenzionata a portare lo sviluppo economico nelle sue province occidentali più povere. La lotta alla povertà è stata collegata con l’ambizione di penetrare allo stesso tempo nei mercati esteri. Infatti, l’obiettivo è quello di stabilire catene di produzione cinesi, in cui la produzione intensiva di manodopera sarebbe trasferita dalle province sviluppate alle regioni più povere. La BRI fornirebbe quelle infrastrutture fisiche e istituzionali che sono cruciali per dare vita a queste dinamiche e rendere economicamente redditizio questo tipo di catene di produzione cinesi. Lo spostamento di fabbriche ad alta intensità di manodopera fa parte di un progetto più ampio che prevede la sostituzione di quest’ultimo con produttori high-tech ad alta intensità di capitale nelle aree ricche della Cina.

L’agenda “Made in China 2025” mostra le aspirazioni cinesi di diventare leader in settori come l’aviazione, le energie rinnovabili, le ferrovie e le biotecnologie. L’obiettivo è quello di sviluppare beni indipendentemente dai diritti di proprietà intellettuale delle multinazionali occidentali e di espandere la quota di mercato della Cina nei beni di alta gamma.

Una seconda ragione dietro alla BRI si trova nel problema della sovraccapacità dell’industria manifatturiera e il conseguente rischio di fallimento per le imprese cinesi. A questo proposito, le acciaierie rappresentano un buon esempio. Infatti, come già affermato dal Consiglio di Stato, la Cina non può permettersi di ridurre la produzione di acciaio e l’unico modo per risolvere il suo problema di sovraccapacità è renderlo più competitivo attraverso dei merger, l’istituzione di standard di qualità cinesi e la promozione dell’esportazione attraverso la Nuova Via della Seta – che dovrebbe creare una domanda di 85 milioni di tonnellate di acciaio.

La Belt and Road riserva un ruolo cruciale anche all’Africa. In Gibuti è stata realizzata la prima base militare cinese permanente all’estero. Nel continente africano gli investimenti cinesi hanno innegabilmente portato occupazione e sviluppo. Per esempio, la crescita in Etiopia ha portato alla storica pace con l’Eritrea.
Ma la cosiddetta Cinafrica non è limitata alla parte orientale del continente. Pechino è presente con investimenti importanti anche in paesi dell’Africa occidentale come Senegal e Angola. Nei piani ci sarebbe addirittura una linea ferroviaria ad alta velocità che collegherebbe la costa orientale con quella occidentale. L’Africa è però importante per la Cina per l’accesso alle risorse naturali e minerarie. L’esempio principale è il cobalto, fondamentale per lo sviluppo tecnologico delle auto elettriche, un settore nel quale Pechino vuole diventare leader.

Ottime le prospettive sulla carta, ma non è oro tutto quel che luccica e un piano infrastrutturale di tali proporzioni merita alcune analisi su certi aspetti critici che possono influenzare l’Unione Europea e l’Italia.
Ci sono due aspetti fondamentali che possono mettere in crisi Bruxelles. 

Il primo consiste nelle difficoltà che le aziende europee devono affrontare per accedere ai mercati cinesi. Le infrastrutture fisiche migliorate e le istituzioni finanziarie in tutta l’Eurasia faciliterebbero i flussi tra l’UE e la Cina, ma non garantiscono pari benefici per entrambe le parti. Il semplice fatto che la Cina non adotti quelle regole liberali di mercato tanto care all’Unione europea è una fonte di asimmetrie economiche che possono essere osservate osservando i dati degli IDE (Investimenti Diretti Esteri).

Nel 2017, mentre i flussi di IDE verso l’estero dalla Cina ammontavano a $ 111 miliardi, gli investimenti diretti esteri cinesi, una volta eliminati gli investimenti da Hong Kong, ammontavano a meno di $ 40 miliardi. Nonostante il fatto che il presidente Xi Jinping abbia dichiarato nel 2017 un’apertura progressiva del mercato cinese, gli investitori stranieri devono affrontare alcuni ostacoli anche per quanto riguarda gli investimenti incoraggiati. Denunciano l’uso frequente delle politiche industriali come mezzo per favorire le imprese statali e le imprese nazionali, diritti di voto limitati e restrizioni alla partecipazione straniera ai consigli di amministrazione delle società, debole protezione e applicazione dei diritti di proprietà intellettuale; corruzione, un sistema giuridico non trasparente privo di norme giuridiche e requisiti nazionali o di sicurezza informatica eccessivi.

Dall’altra parte, nel secondo aspetto, gli investimenti stranieri della Cina possono generare anche importanti risultati politici. Le acquisizioni cinesi di partecipazioni in imprese, banche, porti e servizi di pubblica utilità si sono già dimostrati utili per aumentare l’influenza della Cina in alcuni paesi europei e favorire le divergenze politiche all’interno dell’Unione europea. I casi di Ungheria e Grecia sono emblematici.
Di conseguenza, l’UE ha bollato la Cina come “rivale sistematico” a causa della sua controversa politica commerciale industriale e della predatoria acquisizione di proprietà intellettuale da parte delle società europee. La sfida del Vecchio Continente è infatti quella di riuscire a influenzare il progetto cinese, modellandolo e adattandolo ai principi di trasparenza e concorrenza e agli standard sociali europei, garantendo allo stesso tempo la sicurezza dei propri settori strategici. Un’impresa molto complessa ma che l’Europa deve fare. 

In Italia la situazione è ancora più complessa.
Il governo giallo-verde ha sottoscritto – con i suoi soliti bisticci interni – questo accordo economico col Dragone orientale. Infatti, il ministro del lavoro e dello sviluppo Luigi Di Maio crede che l’economia italiana, come uno dei maggiori esportatori manifatturieri d’Europa, possa sfruttare nuove e sostanziali opportunità commerciali. I beni di lusso italiani sono un’industria estremamente richiesta dai consumatori cinesi. Questo problema potrebbe offrire un altro mezzo di frammentazione per la coalizione di governo.

La disputa sul bilancio dell’Italia e sul rispetto della procedura per i disavanzi eccessivi dell’UE – il famoso def – rendono l’Italia un partner truculento sulla scena europea. La Cina ne è consapevole e cerca di trarne vantaggio. Questo è significativo perché il BRI non è solo un progetto economico-politico, ma potrebbe vedere la presenza cinese in attività di importanza strategica, come le potenziali acquisizioni dei porti italiani di Trieste e Genova – anche se tale eventualità pare sia stata esclusa.
Il rifiuto dell’Italia di consultare i membri dell’UE o gli alleati del G7 prima di firmare l’endorsement alla BRI ha causato particolare irritazione a Bruxelles e potrebbe averne negativamente influenzato l’approccio alla nuova via della seta.
L’Italia ha infatti sottoscritto l’accordo singolarmente, come altri Paesi dell’Est Europa, garantendo l’accesso ai mercati italiani senza necessariamente rispettare le normative europee in termini di concorrenza, regolamentazione e di diritti dei lavoratori. Ciò minaccia di conseguenza le piccole e medie imprese nostrane con impianti di produzione ancora presenti sul territorio italiano, che possono vedere i settori economici invasi da prodotti asiatici a bassa manodopera, sfavorendo una qualità obiettivamente superiore e una competitività già debole di suo.
A questo va aggiunto il fatto che i prodotti italiani, per quanto richiesti in Cina, sarebbero alla portata di una fetta minuscola della popolazione, dovuto ad un innalzamento dei prezzi dei beni legati alle spese di trasporto, tasse e ricollocamento nel mercato cinese. 

Un altro nodo è legato ai settori strategici e della sicurezza dei dati. Da qui nascono anche le pressioni degli USA – i cui rapporti col colosso asiatico si sa che non sono dei migliori e che vedono molto negativamente la Belt and Road, tant’è che in certi casi si è iniziato a parlare di nuova guerra fredda – affinché Huawei sia esclusa dai progetti di sviluppo delle reti 5G. Avere una multinazionale straniera che gestisce i dati sensibili e la privacy di milioni di utenti in tutto il mondo è un’idea che infatti fa storcere il naso a molti.

A minacciare l’economia italiana in questo progetto è inoltre la cosiddetta “trappola del debito” di Pechino, ormai ampiamente riconosciuta sulla scena internazionale. In sostanza, i paesi che ricevono gli investimenti di Pechino si indebitano di cifre che poi non riescono a ripagare. L’esempio più ovvio è quello dello Sri Lanka, isola dell’oceano Indiano che ha dovuto cedere in concessione per 99 anni il suo porto di Hambantota – da ricollegarsi quindi alla preoccupazione per i porti di Trieste e Genova. L’economia poco lucida dell’Italia, aggravata da un rapporto debito/PIL del 130%, rischia di cadere nella stessa tattica.

Nella teoria, la partecipazione italiana alla Belt and Road Initiative potrebbe essere una grande chance commerciale, ma è stata gestita in modo tale per cui non è stato creato consenso internazionale a supporto della scelta italiana. L’isolamento in chiave europea di cui l’Italia soffre al momento fa sì che la nostra scelta venga osteggiata da tutti.
Al contrario, serve che l’Unione Europea partecipi unita in questo disegno economico e che lo modelli secondo le proprie normative per evitare che soccomba sotto la superpotenza asiatica. Perché una cosa è certa, il progetto della BRI non è solo di carattere economico.

Lorenzo Rossi
Politicamente critico. Fieramente europeista.
Racconto e cerco risposte in quel che accade nel mondo.