Del: 1 Maggio 2019 Di: Elisa Torello Commenti: 0

Nella tradizione culturale milanese il teatro ha un ruolo fondamentale. Sono moltissime le personalità che hanno fatto della capitale lombarda un’eccellenza nell’ambito teatrale. Inoltre, sul suolo milanese sono tante anche le scuole e le accademie che permettono ai giovani di avvicinarsi a questo mondo e di comprenderlo più da vicino. Ogni anno fanno richiesta al corso di recitazione della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi in centinaia, ma gli ammessi sono meno di quindici.

Esistono, però, anche realtà diverse da quelle tradizionaliNoi abbiamo incontrato Mateo Çili, attore e regista albanese che ha fondato tre anni fa la Scuola Sperimentale di Teatro Zahr Teatër. Mateo si è diplomato all’Accedemia del Teatro Stabile del Veneto, e si è specializzato con diversi gruppi e maestri internazionali tra cui il The Worcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards e l’Odin Teatret.

Gli abbiamo chiesto di parlarci della sua scuola e di quale sia per lui il senso del teatro oggi.


Come è nata l’idea di fondare Zahr Teatër?

Ho aperto questa scuola perché mi sono reso conto che non riuscivo a trovare intorno a me realtà che mi soddisfacessero. Nel tempo ho incontrato molti attori che non avevano voglia di lavorare, registi pieni di sé. Sono rimasto per lungo tempo all’Odin Teatret e mi sono trovato molto bene, la mia intenzione era di rimanere lì. Poi un giorno parlando con Julia Varley, mia insegnante, mi sono reso conto che restare all’Odin significava avere già tutto pronto e a portata di mano. L’Odin è stato un progetto che si è realizzato grazie a un duro lavoro nel corso di almeno cinquant’anni e che oggi rappresenta un punto di arrivo per moltissimi attori che desiderano fare un teatro fisico e vero. Ma loro per arrivare dove sono adesso hanno fatto tantissima strada, per le prove del loro primo spettacolo Eugenio Barba e i suoi attori usarono un rifugio antiaereo sotto una collina. Julia mi invitava a fare il mio Odin, a trovare persone con cui lavorare per raggiungere qualcosa di più grande. E poi è arrivata la possibilità di farlo, io lo chiamo Destino. Un amico mi ha detto che avrebbe preso in gestione lo spazio culturale “Corte dei Miracoli” e mi ha proposto di tenere un laboratorio teatrale. Io ho risposto che invece volevo fare una scuola, cinque giorni a settimana, cinque ore al giorno. Adesso sono passati tre anni.


Che cosa significa oggi fare l’arte di mestiere?

In Italia l’arte teatrale non viene vista come un mestiere. C’è un rispetto maggiore per l’attore di cinema. Quando mi chiedono che lavoro faccio e rispondo “attore”, la domanda successiva è sempre “di cosa?”. Ci sono arti più oggettive di altre, la musica è una di queste. A un musicista nessuno si sognerebbe di non pagarlo, mentre invece capita spesso che a un attore si proponga visibilità, senza offrire un compenso. Il problema è che il mestiere dell’attore oggi attiva naturalmente il Narciso che è in noi, ci sono attori che pur di farsi vedere farebbero di tutto e rinunciano a ricevere un compenso. Così rischiano di diventare scimmie ammaestrate che fanno di tutto pur di farsi tirare una nocciolina, invece, l’attore deve essere prima di tutto un essere umano e avere un’etica del lavoro. Bisogna sottrarsi alle logiche del mercato: l’attore deve fare teatro per imparare a vivere, non perché gli dia da vivere. Per sopravvivere può fare altri mestieri, ma è importante che abbia qualcosa da dire, che sia toccato lui stesso per primo da ciò che fa, perché questo è l’unico modo per toccare il pubblico. Deve essere un “attore sveglio”.


Cosa intendi per “attore sveglio”?

In Occidente non siamo presenti a noi stessi, non abbiamo consapevolezza del nostro corpo. Oggi è difficile essere svegli, perché siamo in una società che vuole addormentarci per intrattenerci, ossia trattenerci. Il teatro non deve essere visto come un intrattenimento in questo senso, non deve trattenere dal fare. Il teatro deve trattenere il pubblico lì perché vuole dirgli delle cose elevate. L’attore sveglio è un attore che ha la consapevolezza del proprio essere e del proprio essere fisico.


Hai parlato di consapevolezza fisica. Quanto è importante il training nella vostra formazione?

Il corpo è l’unica cosa che possiamo controllare. Noi siamo soprattutto corpo e, invece, il nostro sistema educativo si focalizza principalmente sulla mente. A scuola un bambino dai sei anni in poi passa un terzo della sua giornata di veglia seduto su una sedia: questo è contro natura. Possiamo fare esperienza di noi stessi solo attraverso i sensi, e se si annulla il corpo cosa rimane? Solo una mente prigioniera che non riesce a fare esperienza di sé. Idealmente, se l’essere umano crescesse in maniera naturale, il training fisico non sarebbe importante. Se fossimo nati nella giungla, per esempio, non ci sarebbe la necessità di raggiungere una consapevolezza fisica. Sono stato in tournée a Bogotá, in Colombia. Lì gli attori sono più vivi, non hanno bisogno del training. Questo perché il contesto in cui vivono è diverso, mancano le risorse principali, sono frequenti le sparatorie. Per fare uno spettacolo abbiamo dovuto chiedere l’autorizzazione a dei criminali e loro ci hanno concesso un’area precisa in cui farlo, se non avessimo rispettato quel confine avremmo rischiato di morire. Lì si rischia la vita e allora ha senso fare teatro, loro non hanno bisogno di training perché la loro vita è il loro training. Qui in Italia invece è difficile fare teatro, il training a noi serve per eliminare le scorie che la società ci ha messo addosso dall’infanzia. Ci sono attori che arrivano nella nostra scuola e non sanno stare su un piede solo, abbiamo disimparato a usare il nostro corpo: la situazione è grave.


Come fate voi a raggiungere questa consapevolezza corporea?

L’essere umano tende a essere distratto, soprattutto nella nostra società. È possibile essere consapevoli del proprio corpo solo facendo cose, non lasciando alla mente il tempo di pensare, e bisogna fare cose difficili. Quando siamo in una situazione di pericolo, infatti, la mente pensa solo a salvarsi la vita. Quindi è necessario trovare delle situazioni artificiali di pericolo, noi per esempio lavoriamo con i bastoni, ce li lanciamo, ci colpiamo, a volte degli oggetti prendono fuoco in scena: facciamo un lavoro anche pericoloso per certi versi, ma questo aiuta gli attori a stare nel corpo. Questo è anche il motivo per cui facciamo uno spettacolo ogni quattro settimane, per mettere subito l’attore sulla scena, in pericolo.


Come si organizza il lavoro all’interno della vostra scuola?

La scuola è divisa in nove moduli, uno per mese. Lo scorso mese il tema era la scrittura drammaturgica e abbiamo messo in scena dei monologhi. Ogni quattro settimane organizziamo uno spettacolo attinente al modulo che abbiamo svolto. I nostri spettacoli sono a offerta libera e il ricavato viene ripartito tra gli allievi, è giusto che siano pagati per il loro lavoro. Facciamo lezione cinque giorni a settimana per cinque ore al giorno, per un totale di cento ore mensili. Attualmente stiamo lavorando sul ritmo come principio scenico. Il prossimo spettacolo sarà il 12 maggio alle 17.00, alla Corte dei Miracoli. Si chiamerà “Dopolavoro jam” perché sarà una jam ritmica aperta al pubblico, che potrà venire a fare musica con noi e capire cosa vuol dire produrre ritmo.


Che ruolo ha oggi il teatro nella nostra società?

Oggi il teatro è un lusso, non è necessario. C’è internet, la televisione, Netflix, la realtà virtuale, i videogiochi. La gente non sente più il bisogno del teatro, di teatro ne ha bisogno chi lo fa, non chi lo guarda. Il teatro deve essere usato non come lo specchio di Narciso, ma come un ariete per sfondare le porte della percezione. Nello stare in contatto con un altro essere umano si realizza lo scopo reale della vita, che è la presenza, una energia superiore in grado di invadere. Per un attimo ti assale la consapevolezza che siamo tutti parte di qualcosa di inimmaginabile. Il teatro non deve elemosinare che la gente vada a vederlo, ma deve solo essere vivo ed essere vero. E, infine, il teatro è anche un azzardo, da qui nasce il nome Zahr (dall’arabo az-zahr, dado): si può scommettere tutto nel teatro ma non c’è nessuna garanzia.

Intervista a Mateo Çili: l'azzardo di fare teatro oggi -Vulcano Statale

Intervista a Mateo Çili: l'azzardo di fare teatro oggi -Vulcano Statale

 

 

 

Elisa Torello
Sono nata a fine agosto a Milano, ma sogno il mare ogni giorno. Mi illudo di catturare la realtà che mi circonda attraverso la fotografia e la scrittura. Mi piace parlare di libri e di idee, ma spesso mi soffermo troppo sui dettagli.