Sono ormai diverse settimane che il generale Khalifa Aftar ha iniziato gli scontri contro il governo di accordo nazionale di Tripoli, presieduto dal premier Fayez Al Serraj, riconosciuto dall’ONU.
La dura guerra di logoramento ha già causato la morte di almeno 432 persone e oltre 2.000 sono stati feriti, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. 55000 sono gli sfollati, secondo le cifre delle Nazioni Unite.
Domenica scorsa il maresciallo, comandante dell’Esercito Nazionale Libico che circonda la capitale, ha ordinato alle sue truppe di raddoppiare i loro sforzi, per “insegnare al nemico una lezione più grande di quella precedente”. La difesa di Tripoli è in mano alle forze militari e alle milizie che sostengono il governo di transizione, che paiono resistere all’attacco.
Il Paese nordafricano è stata diviso, senza legge, e tende a diventare uno stato fallito da quando l’intervento della NATO, compresi i raid aerei americani, ha aiutato a rovesciare il dittatore Moammar Gheddafi nel 2011.
Ora due governi rivali continuano a rivendicare il potere in una Libia destabilizzata da milizie in guerra, suscitando il timore di una terza guerra civile, anche se l’influenza di diverse potenze estere è ormai riconosciuta.
Ma chi è Khalifa Haftar, il cosiddetto “Uomo forte della Cirenaica”?
Il comandante era un cadetto durante il colpo di stato di Gheddafi del 1969 che depose il re Idris al-Sanusi. Venne promosso al rango di ufficiale comandante negli anni Ottanta, ma Haftar presto si rivoltò contro il proprio capo, appellandosi al colpo di stato e alla fine dovette essere salvato dalla CIA. Visse in Virginia per vent’anni, dove, secondo gli esperti, godeva di un rapporto continuo con l’intelligence statunitense. Ha pure guadagnato la cittadinanza americana prima che tornasse in patria e che Gheddafi cadesse nel 2011 – periodo in cui partecipò a numerose battaglie, garantendosi reputazione ed esperienza bellica –.
Oggi, Haftar è alleato con il parlamento rivale della Libia nella città orientale di Tobruk. Questa amministrazione è sostenuta dall’Egitto, dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Arabia Saudita e non riconosce il governo di Tripoli, formato da un accordo politico nel 2015.
Inoltre, le sue forze militari controllano una grande maggioranza dei pozzi petroliferi libici, anche se non ne beneficiano direttamente dalle vendite.
Questo ha attirato l’interesse non solo dei Paesi già citati, ma anche di Stati Uniti, Francia e Russia.
La posizione ufficiale di Washington era stata quella di sostenere il governo appoggiato dalle Nazioni Unite Tripoli, ma una telefonata tra Trump e Haftar due settimane fa ha sollevato una serie domande. Il presidente statunitense ha elogiato il suo “ruolo significativo nella lotta al terrorismo e nel garantire le risorse petrolifere della Libia”, secondo una dichiarazione della Casa Bianca.
Da parte della Francia, il governo di Emmanuel Macron è accusato da tempo di portare avanti una politica molto ambigua in Libia, nonostante abbia riconosciuto il governo di Serraj. È accusato di aver puntato tutto su Haftar, senza però averlo riconosciuto in maniera aperta e pubblica. L’impegno della Francia al fianco del generale, nonostante sia stato negato dal governo dell’Eliseo, è ormai un fatto riconosciuto da analisti, esperti e governi stranieri.
L’appoggio ad Haftar era però iniziato già durante la presidenza Hollande. Nel febbraio 2016, Le Monde pubblicò un’inchiesta che sosteneva che forze speciali e agenti dell’intelligence francese erano in Libia dall’anno precedente per svolgere operazioni segrete contro lo Stato Islamico e per assistere la coalizione che si stava formando attorno ad Haftar. Un funzionario della Difesa francese citato da Le Monde disse che per il governo di Parigi era importante agire con discrezione, con azioni militari non ufficiali. La Francia sperava così di aiutare Haftar a imporre l’ordine in Libia, ripristinando la normale produzione di petrolio e tenendo sotto controllo la diffusione di gruppi islamisti e jihadisti: l’architetto di questa strategia era il ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian che, sotto la presidenza di Macron, sarebbe diventato ministro degli Esteri.
La scelta di schierarsi con Haftar è legata nel tempo a due fattori principali. In particolare, gli interessi energetici della società francese Totale in Libia, e motivi strategici, spiegabili con la necessità di fermare il flusso di armi e fondi verso gruppi jihadisti operanti in Niger, Ciad e Mali, tre dove la Francia è operativa attraverso la missione Barkhane, finalizzata alla lotta al terrorismo e al jihadismo.
Una posizione simile alle prime due l’ha assunta la Russia, che a sua volta considera il generale un personaggio chiave nella lotta al terrorismo. Dopo anni passati a posizionarsi come uno dei più fedeli sostenitori di Khalifa Haftar, il Cremlino sembra però stia frenando il suo esplicito sostegno al comandante libico.
L’obiettivo russo è di essere un mediatore essenziale, secondo Max Suchkov, esperto del Medio Oriente presso il Consiglio degli affari internazionali della Russia – un gruppo di esperti sponsorizzato dal Cremlino –: “In tutto questo, Mosca si atterrà alla regola d’oro della diplomazia russa: posizionati in un modo che ti renda l’ideale per tutte le parti indipendentemente dal tuo coinvolgimento con ognuna di loro”. Infatti, se da una parte vi è l’appoggio al generale ribelle, dall’altra parte pare che Mosca abbia degli accordi con Tripoli sulla questione petrolifera.
Haftar ha detto che il suo obiettivo nell’attaccare Tripoli è quello di eliminare i jihadisti e le bande criminali dalla Libia.
Ma ben lontano ormai dal suo presunto obiettivo, alcuni esperti pensano che la sua campagna mediatica su questo tema fornirà loro solo una scusa o un punto d’appoggio. Si ritiene, infatti, che vi sia la possibilità che si instauri nuovamente una dittatura con a capo Haftar.
La situazione pare al momento in stallo e a rimetterci sono i civili, gettati nel mezzo di un conflitto che di patriottico ha ben poco. I tentativi di mediazione da parte dell’ONU e dai singoli Paesi esteri ci sono, ma la situazione rimane critica.