Il suicidio assistito è ufficialmente entrato nell’ordinamento italiano.
Senza una discussione in Parlamento, senza rumore. Grazie a una svolta storica, uno fra i problemi etici più discussi degli ultimi quindici anni è stato improvvisamente superato con una sentenza della Corte Costituzionale. E stupisce che una delle decisioni più difficili e controverse della nostra storia sul piano politico, sociale ed etico, non sia frutto del percorso parlamentare ma, appunto, di una sentenza.
Con un’ordinanza ineccepibile, elegante e innovativa, un anno fa la Corte aveva rimesso al Parlamento, “in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, il compito di produrre una legge che sostituisse o almeno integrasse l’articolo 580 del Codice Penale (che punisce “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione”), risalente al 1930.
I giudici, infatti, consapevoli sia dell’illegittimità costituzionale dell’articolo, sia della delicatezza della materia, avevano saggiamente preferito passare la palla al legislatore, concedendogli un anno di tempo.
Cosa ha fatto il Parlamento in quest’anno? Praticamente nulla. Non si è andati oltre le audizioni e dalle commissioni non è uscito uno straccio di testo condiviso, tanto che già da mesi appariva chiaro come nessuna forza politica (gialla, verde o rossa) avesse la minima intenzione di fare alcun passo in qualsivoglia direzione prima che la Corte emettesse il suo verdetto.
Non è la prima volta che la Corte Costituzionale si trova nella posizione di dover sopperire alla mancanza di coraggio della classe politica. Per esempio, risale al 2010 la prima sentenza che aprì la strada alla possibilità delle unioni civili in Italia; ma ancora più determinante fu quella del 2014 che dichiarò incostituzionale la legge che prevedeva l’annullamento automatico del matrimonio nel caso in cui uno dei due coniugi cambiasse sesso. La sentenza precisò che al legislatore sarebbe spettato il compito di istituire una forma alternativa che permettesse ai due coniugi di evitare il passaggio da uno stato di massima protezione giuridica a una condizione, su tal piano, di assoluta indeterminatezza. Eppure, bisognò aspettare fino al 2016 per avere una legge (comunque carente) sulle unioni civili.
Un altro caso esemplare riguarda la possibilità di dare al figlio il cognome della madre. La legge prevedeva il divieto per i coniugi di assegnare alla prole il cognome materno. In questo caso, il primo avvertimento della Corte Costituzionale risale addirittura al 1988. Il messaggio venne ribadito nuovamente nel 2006 e dieci anni dopo, nel 2016, i giudici decisero di tagliare corto e dichiarare incostituzionale quella legge. E il Parlamento non si espresse.
L’adozione da parte di coppie omosessuali è un altro tema su cui la giustizia (in questo caso la Corte di Cassazione e il Tribunale dei minori di Firenze) ha dovuto pronunciarsi al posto della politica, e ancora non esiste una legge che chiaramente riconosca alle coppie omosessuali il diritto di adottare un bambino.
Il nome che resterà nella storia, in questo caso, è quello di Marco Cappato: la sua sfida alla legge ha rappresentato una battaglia politica e culturale che avrebbe dovuto svolgersi nelle aule di Camera e Senato.
Le ragioni di tanta timidezza sono chiare: i diritti civili e i dilemmi bioetici sono più divisivi di ogni altra questione, sia all’interno sia all’esterno dei partiti, e l’influenza della componente cattolica è forte. Ma le decisioni che restano nella storia necessitano di coraggio e di uno sguardo che vada oltre l’imminente.
Soprattutto ora, perché il lavoro è tutt’altro che concluso. L’articolo 580 è ancora lì, uguale a prima, integrato solo dalla fondamentale interpretazione della Corte, secondo cui l’aiuto al suicidio non è punibile quando il malato è “affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”.
Ma chi decide quali sofferenze sono tollerabili e quali no? I medici? Il malato? Quali patologie verranno ritenute sufficientemente gravi da giustificare il suicidio assistito?
Spetta al Parlamento, lo stesso che finora ha taciuto, trovare delle risposte.