Del: 22 Ottobre 2019 Di: Fabrizio Maroni Commenti: 0
Cosa sappiamo sull'industria bellica italiana

In seguito all’offensiva ordinata da Erdoğan nella Siria settentrionale, si sono sollevate diverse polemiche riguardo alla vendita di armi italiane alla Turchia; vendita che il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha voluto fermare con un decreto ministeriale che proibisce ulteriori autorizzazioni alle esportazioni di armi verso Ankara. Ma cosa sappiamo sul mercato delle armi made in Italy?

La legge 185 del 1990 disciplina l’esportazione di armamenti dal nostro paese ed elenca i casi in cui è vietata: non si possono vendere armi a Paesi in stato di conflitto armato, a Paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della Costituzione, a Paesi i cui governi siano responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo, e nemmeno a quelli nei confronti dei quali sia stato dichiarato un embargo dalle Nazioni Unite.

La legge dispone inoltre la costituzione di un’Autorità nazionale, la UAMA (Unità per le Autorizzazioni dei Materiali di Armamento), con sede presso il ministero degli Esteri, il cui compito consiste nel valutare la concessione di autorizzazioni e licenze di esportazione di armamenti verso altri stati. Questa Autorità, il cui direttore è per legge al pari di un ministro plenipotenziario, dovrebbe in sostanza fungere da organo di controllo; sennonché qui troviamo il primo inghippo, perché la UAMA, nel tempo, ha iniziato a operare come un promotore dell’industria bellica nostrana. Lo attesta, per esempio, l’audizione del direttore dell’Autorità nazionale, Francesco Azzarello, presso la Commissione Difesa del Senato lo scorso 30 gennaio. L’audizione era volta a “individuare le azioni utili per creare migliori condizioni di crescita delle esportazioni in un settore trainante dell’economia nazionale, anche attraverso un adeguamento della normativa”, con la garanzia di un “massimo supporto alle nostre industrie nazionali, individuando formule di sostegno che permettano loro di fornire i prodotti in maniera competitiva con i paesi nostri concorrenti”. È evidente la contraddittorietà di un organo deputato alla vigilanza sulle esportazioni di armamenti che, nello stesso tempo, si preoccupa di rendere competitiva quella stessa industria su cui dovrebbe vigilare.

La UAMA ha anche il potere di condurre delle ispezioni per verificare che i materiali prossimi all’esportazione corrispondano, in numero e sostanza, a quelli autorizzati. Come riporta la Relazione governativa sull’export italiano di armamenti (che il governo è tenuto a presentare al Parlamento ogni anno entro il 31 marzo), tali ispezioni sono state 17 in tutto il 2018 e 12 nel 2017. Veniamo ai numeri. La fonte principale di dati sull’export di armi proviene dalla citata Relazione governativa, la quale però, come segnala ogni anno Rete Italiana per il Disarmo, manca decisamente di trasparenza: per esempio, non è specificato quali tipi di armamenti vengono esportati in questo o quel paese.

Occorre innanzitutto distinguere fra autorizzazione (l’approvazione di contratti che riguardano esportazioni future) e consegna (il fatturato, frutto di trasferimenti effettivi di materiale precedentemente autorizzato). Per esempio, il decreto di Di Maio riguarda solo e unicamente le autorizzazioni future, non ancora concesse, ma non incide in alcun modo sui contratti in essere, quelli cioè già autorizzati e che continueranno dunque a produrre consegne, sebbene il ministro abbia dichiarato di voler agire anche in questo senso. Le autorizzazioni verso la Turchia nel solo 2018 valgono 362,3 milioni, 890,6 nel quadriennio 2015-2018.Nel 2018 l’Italia ha esportato armamenti per un totale di 2,5 miliardi di euro. Ma i numeri importanti non riguardano tanto le consegne effettive, quanto appunto le autorizzazioni: la UAMA ha autorizzato produzione ed esportazioni di armamenti (che avverranno dunque nei prossimi anni) per un totale di 5,2 miliardi di euro.

Rispetto ai 10,3 miliardi autorizzati nel 2017, i numeri si sono dimezzati; ma, come fa notare Rete Italiana per il Disarmo, si tratta di un calo fisiologico, non dovuto a un cambio di direzione politico sull’export di armi. A differenza del 2017 e del 2016 non si sono registrate super-commesse (come l’ordine da 7 miliardi di euro di caccia Eurofighter per il Kuwait, nel 2016); ma quelle degli anni passati stanno ancora dando un bel da fare alle nostre fabbriche. In altre parole, nei prossimi anni dobbiamo aspettarci numeri notevoli al capitolo delle consegne effettive. L’industria bellica italiana ha registrato una notevole impennata negli ultimi anni. Nel periodo 2015-2018 sono state autorizzate esportazioni per 36,81 miliardi di euro, più del doppio rispetto ai 14,23 del quadriennio 2011-2014.

Nel 2018, il 72% delle autorizzazioni ha riguardato stati fuori dall’UE e dalla NATO, una percentuale in aumento ormai da diversi anni. Al primo posto della classifica 2018 troviamo infatti il Qatar, con autorizzazioni per 1,92 miliardi di euro; il totale per il periodo 2015-2018 è di 6,52 miliardi.

Il nostro paese è tra i principali rifornitori delle monarchie del Golfo Persico fra i membri dell’Unione Europea.

Per promuovere nuovi ordinativi militari, la Difesa italiana ha coadiuvato la “campagna navale” della fregata Carlo Margottini: salpata lo scorso 17 gennaio dal porto di La Spezia, la fregata ha partecipato alla Naval Defence Exhibition (NAVDEX 2019) di Abu Dhabi per promuovere le attività dell’industria militare italiana e successivamente ha fatto scalo a Kuwait City, a Damman (Arabia Saudita) e a Muscat (Oman), ritornando a Gedda (Arabia Saudita) alla fine dell’aprile 2019. Anche il Pakistan (e i suoi tesi rapporti con l’India) dà grandi soddisfazioni alla produzione italiana: 1,07 miliardi di autorizzazioni dal 2015, di cui 682 milioni solo nel 2018. All’interno di UE e NATO, i principali partner sono la Germania (3,17 miliardi nel 2015-2018) e il Regno Unito (5,27 miliardi nel 2015-2018), ma anche Francia, Spagna e Stati Uniti, oltre ovviamente alla Turchia.

Sebbene il legame tra l’industria bellica italiana e Ankara abbia destato molto scalpore, la Turchia non è, purtroppo, l’unico stato in guerra a cui vendiamo armi. Il caso più grave è forse quello dell’Arabia Saudita, da quattro anni impegnata attivamente in una guerra civile in Yemen che sta causando una delle più tragiche crisi umanitarie di sempre (sebbene se ne parli poco). Dall’inizio del conflitto, il nostro paese ha autorizzato l’esportazione di armi per circa 765 milioni di euro e i numeri salgono a 1,440 miliardi se si considerano i dati dal 2012. Il Parlamento europeo, con due risoluzioni (del 13 settembre 2017 sull’esportazione di armi e del 4 ottobre 2018 sulla situazione nello Yemen), ha chiesto ai paesi membri di porre un embargo sulle forniture militare all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi. Nel 2018 non sono state concesse autorizzazioni di vendita verso l’Arabia Saudita ma, analogamente alla Turchia, i contratti in essere sono ancora validi e le esportazioni continuano. Per quanto riguarda gli Emirati Arabi (alleati dell’Arabia Saudita nel conflitto), nel 2018 sono state concesse autorizzazioni per 220,3 milioni, con un significativo aumento rispetto ai 29,3 e ai 59,3 dei due anni precedenti.

RWM Italia è un’azienda che in Sardegna produce bombe aeree della classe MK80; ha sede legale in provincia di Brescia ed è controllata dal produttore di armi tedesco Rheinmetall AG. Un rapporto dell’ONU del 2017 ha documentato l’utilizzo di questi ordigni nei bombardamenti sui civili in zone abitate dello Yemen; nel 2016 una famiglia di sei persone, tra cui una donna incinta e i suoi quattro figli, sono stati uccisi a Deir Al-Hajari da una bomba prodotta da RWM Italia.

Ai vertici dell’industria bellica italiana troviamo Leonardo S.p.A. (ex Finmeccanica), controllata al 30% dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che nel 2018 ha ricevuto autorizzazioni per 3,233 miliardi di euro. I prodotti Leonardo sono particolarmente apprezzati in Turchia: un esempio sono gli elicotteri T129, prodotti in Turchia su licenza di Leonardo, basati sull’A129 Mangusta dell’italiana Agusta Westland (società del gruppo Leonardo) con sede in provincia di Varese;  o ancora, gli aerei ATR72-600 prodotti da un’altra società varesotta, Alenia Aermacchi, sempre del gruppo Leonardo, per la marina turca.

L’Italia non è certo l’eccezione: vendere armi a chi non dovrebbe riceverne è la regola, in tutto il mondo. Regno Unito e Stati Uniti ci hanno sempre preceduto come fornitori della monarchia Saudita e, per quanto riguarda la Turchia, la decisione di diversi paesi (come Germania, Francia, Norvegia) di bloccare le vendite ha la forza di un buffetto rispetto all’esercito schierato da Erdoğan, armato da quegli stessi paesi fino al giorno precedente all’inizio delle operazioni in Siria. Per sua stessa natura, il mercato delle armi è sostentato in gran parte da chi ne ha più necessità: i paesi in guerra.

In ballo ci sono miliardi di euro e complicati rapporti di potere, ma vendere una bomba a chi la usa per massacrare civili inermi rende complici di quel massacro. Anche se da un ufficio distante migliaia di chilometri, rispetto ai luoghi in cui quelle bombe vengono fatte esplodere, dimenticarselo è più facile.

Fabrizio Maroni
Studente di Scienze Politiche. Ogni mio sforzo è volto principalmente a non addormentarmi, esprimo pareri che nessuno ha chiesto.