
Un’opera d’arte per divenire immortale deve sempre superare i limiti dell’umano senza preoccuparsi né del buon senso né della logica.
Giorgio De Chirico
La Metafisica, come movimento dichiarato, sorse nel 1917 a Ferrara, con de Chirico e Carlo Carrà – artista proveniente dalle file del futurismo, dal quale però si era progressivamente distaccato –. L’incontro con de Chirico lo convinse al recupero della figura e all’esplorazione di quel mondo arcaico e fisso che caratterizza la pittura metafisica.
Questo termine nasce come allusione a una realtà diversa, che va oltre ciò che vediamo: gli oggetti e gli spazi sembrano rivelare e prendere l’aspetto di enigmi, di misteri, di segreti inspiegabili.
Nella metafisica predomina la stasi più immobile. Non solo non c’è velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo, dove le cose e gli spazi si pietrificano per sempre. Predomina la dimensione di silenzio più assoluto e, in arte, si rifà a strumenti tradizionali, come per esempio all’uso della prospettiva.
Si potrebbe pensare che, alla fine, si tratti solo un movimento di retroguardia, fermo a posizioni accademiche: invece è riuscito a trasmettere messaggi totalmente nuovi, la cui carica di suggestione è immediata ed evidente.
Le atmosfere magiche ed enigmatiche dei quadri di de Chirico colpiscono proprio per l’apparente semplicità di ciò che descrivono. Le sue immagini mostrano una realtà che solo a prima vista assomiglia a quella che conosciamo: il mondo appare sotto una luce irreale non corrispondente alla luce solare, come si desume dalla discordanza tra l’ora segnata dagli orologi, spesso presenti, e le ombre lanciate dagli edifici o da figure sottilissime e minute che appaiono sullo sfondo.
Al di sopra di un muretto o di una siepe si staglia un cielo completamente buio, che è, in realtà, il vuoto dello spazio cosmico, la presenza del nulla.
L’esile figura in primo piano con lo sguardo rivolto in se stessa è proprio immagine della riflessione sul mistero dell’essere, segnata dalla malinconia o dall’angoscia di fronte al vuoto. Le piazze d’Italia o le stazioni, accuratamente disegnate secondo la prospettiva rinascimentale, a volte volutamente falsata, sono prive di ogni riferimento reale e spesso quasi in contraddizione con loro stesse. Il colore dominante è un leggero ocra che finisce molto spesso nell’ombra scura, appena contrastato dal bianco degli edifici o dal rosso dietro le volte, per dar meglio le impressioni di quinte teatrali.
Non c’è spettacolo che venga rappresentato su questa scena, se non quello della scena stessa – quello dell’assenza umana o della muta presenza della malinconia nelle statue –, e quella dei rapporti di misura delle linee, delle superfici e dei volumi sapientemente calcolati, a far da contrasto al vuoto nulla dello spazio cosmico.
Oltre agli spazi architettonici entrano, come soggetti dechirichiani, anche i manichini. Questa forma umana, pur non essendo tale, si presta egregiamente a quell’assenza di vita che caratterizza la pittura metafisica, per certi versi addirittura esaltandola, data la visibile contraddizione tra ciò che sembra umano ma non lo è. Spazi urbani vuoti con prospettive deformate e manichini al posto di persone: forme prese dalla vita, che non vivono assolutamente ma ricordano la vita dopo che è passata, lasciando come traccia solo delle forme vuote.
Il tema non è la morte come fine, ma quell’eternità immobile e misteriosa che va oltre l’apparenza delle cose.
La vita è continua modifica nel tempo: osservare questa dinamica significa capire le leggi fisiche che regolano l’universo. De Chirico, però, vuol cogliere quel mistero insondabile che si cela dietro queste leggi, che porta a interrogarsi sul senso ultimo delle cose e sul perché della loro esistenza.
Vuole semplicemente polemizzare con chi ha fatto del tempo o della velocità la nuova ispirazione dell’arte moderna, indicando come in realtà queste siano solo variabili effimere: il vero senso delle cose sta oltre il tempo.
La pittura metafisica usa gli strumenti tipici dell’arte per rappresentare qualcosa che va oltre la percezione sensoriale, lasciando così spazio ai sogni e alle visioni dell’inconscio. È per questa ragione che le architetture e i luoghi riprodotti da de Chirico assumono una valenza onirica, grazie a una prospettiva quasi distorta, colori ed elementi quasi innaturali o fuori luogo, e trasmettono in questo modo un senso di solitudine e inquietudine, come se ci si trovasse all’interno di un sogno.

Il regista Jean Cocteau scrive a questo riguardo che «de Chirico, pittore accurato, prende in prestito dal sogno l’esattezza dell’inesattezza, l’uso del vero per promuovere il falso».
Affiora anche l’influenza filosofica, in particolar modo la teoria dell’eterno ritorno di Nietzsche. Ispirato dalle parole del filosofo tedesco, de Chirico vede l’arte come una sorta di confronto ininterrotto tra persone appartenenti a epoche diverse, che attraverso la pittura dialogano in un eterno presente.
Per questo motivo, inizia a eseguire dipinti che sono delle vere e proprie rielaborazioni delle opere dei grandi del passato, in cui egli stesso si inserisce con la sua pittura. Esegue anche rielaborazioni dei suoi stessi lavori, come in una sorta di ossessione verso l’eterno ritorno, del sempre uguale, anche nel campo artistico. Nei picchi di drammaticità prevale però sempre l’elemento ludico, il senso parodistico.
De Chirico vive il suo classicismo come favola oppiacea e una scatola di giocattoli.
Articolo di Sara Suffia.