Eni è un colosso dell’energia a livello mondiale ed è coinvolto in una serie di controversie. Ne abbiamo parlato al NO ENI DAY organizzato da alcuni collettivi, che chiedono la completa indipendenza da parte dell’università rispetto a realtà come Eni e si battono per la libera ricerca e il libero sapere.
Il 26 novembre si è tenuto nella sede di Festa del Perdono il primo NO ENI DAY organizzato dai collettivi Ecologia Politica Milano, Fuori Luogo, Collettivo Universitario Tekoser e Controtempi contro la presenza di Eni in università. Un intero pomeriggio di approfondimento aperto a tutti per conoscere l’operato di Eni nel mondo attraverso i documenti: una mostra fotografica, un documentario, la testimonianza di Lanre Suraju, attivista nigeriano, e dell’associazione Re:Common.
Particolare attenzione è stata dedicata ad alcune vicende che hanno coinvolto il cane a sei zampe in Italia e Nigeria.
Siamo in Basilicata, Val d’Agri, 2017: viene trovato del petrolio nella rete fognaria. Messa sotto pressione, Eni ammette la dispersione di 400 tonnellate di greggio nelle falde acquifere. Viene aperta un’inchiesta e nell’aprile 2019 si passa in giudizio. Secondo le parole del gip c’era una precisa strategia, concordata dai vertici milanesi della multinazionale, per nascondere i danni provocati dalle perdite. Emerge anche un memoriale, scritto da un manager morto suicida nel 2013, dal quale si evince che Eni era a conoscenza delle perdite già nel 2012.
Ma non è tutto qui: una Commissione per la Valutazione di Impatto sulla Salute ha rilevato che, nei paesi prossimi allo stabilimento, i tassi di mortalità e di alcune patologie riconducibili alle emissioni sono sopra la media nazionale, sebbene siano necessari ulteriori studi.
La storia di Eni in Nigeria comincia invece nel 1962. Le estrazioni si concentrano nella regione del delta del fiume Niger.
Amnesty International ha studiato per anni gli effetti dell’attività di Eni nello stato africano e ha portato a galla storie di disastri ambientali e soprusi sugli abitanti, spesso costretti ad abbandonare le proprie case. Basti pensare che sono stati sacrificati all’estrattivismo circa 36 mila km² di foresta di mangrovie, senza tenere conto di sversamenti, perdite e gas flaring (la combustione in torcia del gas associato all’estrazione, pratica tra l’altro illegale). Come conseguenza, non solo la popolazione è soggetta a malattie della pelle, leucemie e tumori, ma è privata delle sue risorse: molti pozzi sono inquinati e i residenti bevono acqua contaminata da benzene (rapporto Unep). Queste condizioni forzano le comunità a migrare verso le città più vicine, dove si stabiliscono nelle slums, enormi baraccopoli di periferia in cui le condizioni di vita sono assai precarie e si è costretti ad adottare ogni mezzo valido alla sopravvivenza.
Nell’aprile 2010, un oleodotto gestito da Naoc (sussidiaria di Eni in Nigeria) è esploso in prossimità di un torrente fondamentale per la comunità Ikebiri che vive nelle vicinanze, tanto che questa ha citato in giudizio Eni. Per questo e altri avvenimenti, il Programma sull’ambiente delle Nazioni Unite ha calcolato che la completa bonifica del territorio richiederà oltre 30 anni.
Ma il caso più attuale risale al 2011, quando Eni e Shell acquistano una licenza denominata OPL245, relativa a un enorme giacimento offshore in prossimità del delta del Niger, al prezzo di 1,3 miliardi di dollari; secondo la procura di Milano, in realtà quei soldi sarebbero stati una maxi tangente da elargire a importanti politici nigeriani. La joint venture avrebbe così ottenuto, oltre ai diritti di esplorazione, un’esenzione dalle tasse e uno scudo legale. Più che semplici sospetti, tanto che il gip ha ritenuto, nel dicembre 2017, di rinviare a giudizio le due multinazionali, insieme ad altri 13 indagati: tra questi figurano Paolo Scaroni, ex ad di Eni, Claudio Descalzi, l’ad attuale, e Luigi Bisignani (già condannato nel processo Enimont), oltre a diversi politici nigeriani e dirigenti della Shell.
In entrambi i casi l’azienda si arricchisce a discapito della comunità, che lega a sé perlopiù corrompendo le autorità e attraverso strategie più subdole, come quelle del ricatto occupazionale e degli aiuti allo sviluppo.
Tutto questo ci riguarda, dal momento che Eni è presente a vario titolo nell’università che, non potendosi più basare sul finanziamento pubblico, si aggrappa a fondi europei o privati. Qui l’azienda finanzia ricerche e veri propri master o lauree magistrali con lo scopo di formare figure competenti per l’attività estrattiva: in poche parole, la formazione aziendale è ora esternalizzata negli atenei. Un altro punto su cui insistono con forza i collettivi è la presenza, nel Consiglio di Amministrazione dell’università, di alcuni membri legati a Eni e ad altre società.
In un tale contesto è evidente che ad essere minata sia una certa autonomia della ricerca e del sapere. Con il NO ENI DAY, gli studenti rivendicano questa autonomia e rifiutano di diventare complici dei crimini che, lo abbiamo spiegato, Eni commette nel mondo.