Del: 17 Dicembre 2019 Di: Redazione Commenti: 0

Dall’11 al 14 dicembre è tornato in scena per la sua duecentesima replica alla Triennale di Milano “Macbettu, l’audace rivisitazione in sardo di uno dei massimi capolavori shakespeariani.

Alessandro Serra, regista dello spettacolo e attore, e il suo cast – composto da soli uomini, come si usava al tempo di Shakespeare –, sono reduci da una tournée che li ha visti calcare i palchi dei teatri di tutto il mondo, dalla Georgia all’Argentina al Giappone.

Qual è il segreto di un tale successo?

Quello che Serra ha messo in scena è uno spettacolo che sfrutta a pieno tutte le potenzialità e l’efficacia della comunicazione teatrale, destando tante domande nel pubblico, regalando emozioni forti ma soprattutto lasciando assopire dentro ogni singolo spettatore il lume del giudizio.

Egli viene portato in un mondo oscuro e parallelo, dominato dalle sue regole, dove tutto è possibile e dove gli elementi soprannaturali, simbolici e gestuali si inseriscono in maniera magicamente realistica.

Bisogna aggiungere che tutto ciò è avvenuto in una scena praticamente spoglia e arida come il territorio sardo, e con la scelta di pochi oggetti che avevano di contro una forte importanza simbolica, quasi elementi aggiunti del cast.

Complice di questa atmosfera è la bravura e la preparazione sia fisica sia coordinativa del cast, che insieme a un accurato utilizzo dell’illuminazione ha creato immagini, momenti e, in generale, scene mozzafiato.

Un esempio è il momento in cui Lady Macbeth fa ubriacare eccessivamente i soldati della guardia reale per agevolare l’uccisione del re Malcolm a opera di suo marito. Nella messa in scena il tutto viene reso attraverso l’utilizzo di una ciotola per cani riempita di vino da Lady Macbeth, e da lei appoggiata per terra. Appena la ciotola tocca il suolo, dalle quinte entrano, con movimenti disumani e una velocità spiazzante, a quattro zampe, le guardie che con movimenti canini lottano spietatamente tra loro per poter bere dalla ciotola. Sembra di assistere letteralmente a una lotta clandestina tra bestie.

È significativo l’impatto che una scena costruita in tal modo ha sugli spettatori, soprattutto se consideriamo che questa azione è accompagnata dall’utilizzo di una luce bianca a intermittenza durante tutta la rappresentazione.

Per citare un altro esempio: è molto poetica e incisiva l’immagine scelta per l’uccisione di Banquo. In scena Macbeth recita il monologo in cui decide di ammazzare il suo amico e, subito dopo, un uomo traina dentro la scena un cadavere, quello di Banquo, e lo porta in proscenio. A quel punto prende una pietra e la alza sopra la testa del morto creando suspense nel pubblico, in quel momento fiuta il pericolo e l’orrore della caduta di quel masso sulla testa del personaggio. Macbeth incede anche lui verso il proscenio, con risoluta lentezza, e sottrae la pietra dalle mani dell’uomo in piedi, per poi ritornare verso la sua sedia, simbolo del trono, il potere.

In tutto lo spettacolo il ritmo è perfetto, avvolgente e forse il vero segreto che ha permesso un viaggio così intenso allo spettatore nell’antico mondo scozzese.

Il montaggio potremmo definirlo invisibile, tutto parte dalla stessa scena e non c’è un secondo di vuoto. C’è sempre un movimento – sia fisico (degli attori), sia uditivo, sia di un oggetto – a carpire l’attenzione del pubblico senza dargli mai la possibilità di ritornare nel mondo reale.

Lo studio fisico operato dagli attori, ben apprezzabile nelle varie e sorprendenti qualità vocali che si percepiscono, ci porta lontano da immagini a noi familiari e ci permette di scoprire nuove possibilità espressive della comunicazione corporea, e quindi umana.

Emblema di questa ricerca fisica è la rappresentazione delle tre streghe che, paradossalmente, nonostante la loro responsabilità maligna nel dramma e la loro tradizionale aurea di terrore, costituiscono l’elemento comico della messa in scena e un momento di respiro per gli spettatori.

Con un costume molto simile a quello tradizionale delle befane, le tre streghe sono caratterizzate fisicamente da una camminata costruita attraverso l’incidere velocissimo dei piedi, che mai si staccavano da terra, e una gobba che rende la voce molto innaturale. Il loro eloquio è caratterizzato da un incessante vociare immotivato e continuo, così come immotivate sono le gag divertenti che mettono in scena.

Ed è proprio questa divertente, buffa e quasi stupida insensatezza della loro crudeltà, a invadere il pensiero dello spettatore quando, una volta finito lo spettacolo, ci ritornerà con la mente.

Un’ultima parola bisogna spenderla per la lingua: il dialetto sardo, scelta audace e significativa. Senza l’ausilio dei sottotitoli diventa difficile la comprensione per un non sardo. Ma proprio questa difficoltà forse porta a chiedersi: quanto la parola è davvero importante a teatro?

Questo spettacolo ha messo in scena qualcosa di molto più profondo. Ha messo in scena movimenti, suoni, che descrivono le nostre radici più profonde e ignote.

Ha ricercato una dimensione primitiva che ha permesso un’intelligibilità e un’universalità dimostrate dall’enorme successo e dalla tournée.

In un cast composto solo da attori sardi, quale strumento può essere migliore se non la propria lingua nativa per indagare questa componente irrazionale eppure così importante?

La musicalità di questo linguaggio non è da capire, ma è da vivere. Non parla alla mente, ma al cuore.

Articolo di Simone Muciaccia.

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