
«Se l’evoluzione c’è stata, non del migliore ma del più adatto, ciò non si deve al mero caso, ma a quello specifico caso che è alla base degli innumerevoli, quotidiani, ineliminabili errori nella trascrizione del patrimonio genetico di una specie, che premiano, contestualmente, una variante più adatta alla sopravvivenza.»
Fin dal momento della sua pubblicazione, come noto, l’Origine delle Specie (On The Origin of Species, 1859), fu sottoposta a non poche critiche: non rispettava l’idea creazionista per la quale il mondo appare come l’opera meravigliosa e perfetta di un Dio creatore, non leggeva la natura e la sua straordinaria perfezione (tutto è adatto ad essere quello che è) nell’ottica di un progetto benefico, bensì come risultato di una lotta fra individui in cui solo il più adatto riesce a sopravvivere e relegava la responsabilità di questa selezione non tanto, ancora una volta, a un divino artefice, bensì a un cieco meccanismo naturale.
Al di là di questi aspetti, che minavano le fondamenta dei principi teologici e scientifici condivisi al tempo, c’era un altro elemento che in particolar modo non rendeva la teoria dell’Origine delle Specie in alcun modo tollerabile: sostanzialmente il meccanismo di selezione naturale si basava sull’errore, ovvero la stupefacente adeguatezza di ogni corpo vivente con il suo ambiente e dell’ambiente stesso ad accogliere la vita veniva fatta dipendere da nient’altro che piccole incongruenze nella trasmissione genetica — queste incongruenze provocano delle variazioni nei tratti trasmessi, i tratti più adeguati tendono a conservarsi e gli individui che li possiedono a sopravvivere.
In altre parole, è tutto così perfetto non perché è stato deciso che tutto andasse in modo perfetto, ma è tutto così adeguato perché qualcosa è va nel modo sbagliato.
Sulla base di queste considerazioni Giulio Giorello, Professore di Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Milano, e Pino Donghi, semiologo ed esperto in comunicazione della scienza, aprono il loro ultimo libro Errore, pubblicato per Il Mulino nell’ottobre 2019
Come non ci si può stupire e, soprattutto, come si può spiegare il perfetto funzionamento di qualcosa che nasce per caso o, peggio, per errore? Ci sono una serie di cose, che chiamiamo leggi, regole, inclinazioni, disposizioni, che ci sembrano perfettamente efficaci per spiegare non solo il perché le cose sono come sono, ma anche per suggerirci come saranno o come potrebbero essere — e questo vale per tutte le scienze, ma le ritroviamo anche nella nostra esperienza di vita quotidiana, nella relazione con l’ambiente e con gli altri. Su queste leggi, chiamiamole così, si basa la nostra conoscenza.
Eppure ogni tanto accade che qualcosa, a un certo punto, non va come si pensava dovesse andare, non segue la strada che si pensava dovesse seguire, mette in discussione un ordine che sembrava spiegare — e fino a quel momento aveva spiegato — a regola d’arte il mondo e il movimento delle cose nel mondo. In questi casi si parla di errore e a questo punto di solito ci si ferma un attimo, di solito stupiti, se non altro per chiedersi perché è successo.
Curiosamente, la prima reazione di fronte all’errore è di solito quella della paura: sembra che il riconoscimento dell’errore sia la constatazione di uno scenario disgraziato. Se le cose non vanno come sono sempre andate qualcosa di sciagurato è successo e/o qualcosa di sciagurato sta per succedere, in particolare perché l’errore dipende dal caso. Ed è proprio questo che ci fa paura: accettare che nessuno, neanche il più complesso e coerente sistema di leggi sia sufficiente per spiegare il mondo e, di fatto, padroneggiarlo, ci fa sentire senz’altro fragili. C’è sempre qualcosa di diverso che può accadere e che non possiamo prevedere e a cui possiamo non sapere come reagire e ne siamo inevitabilmente spaventati.
Quello che, però, vogliono sostenere gli autori è che la paura di fronte all’errore e la sua condanna non siano solo reazioni insensate, ma per di più inadeguate e limitanti.
Infatti l’errore semplicemente ci dice che qualcosa non è andato come ci si aspettava ma altrimenti, in modo diverso, e allora le opzioni sono due: o ce ne si disinteressa o si è costretti a pensare altrimenti e se ci si sofferma sul pensare altrimenti può darsi anche il fortunato caso in cui «le nostre idee si svelino erroneamente più adatte ai fatti di quel che sarebbe legittimo augurarsi». In poche parole, il qualcosa di nuovo che compare con la deviazione dal noto (l’errore) può svelarsi più adeguato del noto. È la base di tutte le scoperte scientifiche, anzi, più in generale, di tutte le scoperte. Ed è una qualità tipicamente umana.
Anche un gatto, ci fanno notare Giorello e Donghi, può riconoscere la propria immagine in uno specchio, accingersi a cercarla ed essere deluso dal fatto di non trovare un altro sé in carne ed ossa, ma per il gatto il processo finisce lì. Per l’uomo, invece, proprio questa incongruenza è l’occasione “per stupirsi e incominciare a pensare”. Se le cose vanno in modo diverso l’uomo è in grado di trovare ragioni diverse, ugualmente coerenti, per spiegare perché le cose ora stanno così e non più come prima.
D’accordo che c’è sempre qualcosa di nuovo e diverso che può accadere e che non possiamo prevedere in alcun modo cosa sia e di che carattere sia, ma questo qualcosa potrebbe essere anche molto più utile, più positivo, di quello che c’era prima e possiamo scoprirci inaspettatamente adeguati ad accettarlo.
Non temere l’errore non significa venerarlo e ammettere come assolutamente possibile la sua comparsa non significa cadere in uno scetticismo che crede che non esista una verità e che il mondo nel suo complesso sia incomprensibile. Significa invece ammettere che sì, esistono leggi, direzioni, norme, spiegazioni e relative verità che ci danno una descrizione adeguata del mondo e della posizione — del rapporto — tra il mondo stesso e noi, ma significa anche ammettere, semplicemente, che queste possono cambiare.
Errare è letteralmente e semplicemente quello che può succedere quando ci si allontana da una strada sicura. Una volta compreso questo ne derivano due conseguenze: che non bisogna confondere l’errore con la qualità di quello che si trova errando e che comunque si trova qualcosa.