Del: 25 Gennaio 2020 Di: Contributi Commenti: 0

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Nella coalizione di centro-sinistra alle regionali emiliane, la lista “Emilia Romagna Coraggiosa” ha il compito di fare da peso a sinistra. Viene capitanata da Elly Schlein, ex parlamentare europea dallo spiccato pedigree progressista: figlia di docenti universitari, si laurea all’Alma Mater in Giurisprudenza e porta avanti una carriera politica fatta di impegno ed istituzioni, prima con il PD e poi con Possibile.

Schlein ha organizzato, verso il voto, un simposio di “Donne Coraggiose”: presenti Michela Murgia, Anna Falcone ed altre note per il proprio impegno progressista, cioè un incontro coerente con il leitmotiv della sua campagna elettorale.

L’esperienza di Schlein, della sua lista e del movimento d’opinione poggia sulla lettura progressista di una società delle eque opportunità, dove il fuoco del futuro brilla anche quando tutto è buio.

Un fuoco fatto di ecologia, eguaglianza di genere e di diritti sul lavoro (questi a dire la verità un po’ vaghi), processi decisionali democratici e costruzione europea. Questa narrazione poggia costantemente sull’esempio di oltremare, spesso contrapposto ad un presente deprimente nel Belpaese: vengono così elette a testimonial la prima ministra finlandese Marin, le parlamentari dei DSA, Malala e i ragazzi di Hong Kong.

Quello che è dipinto come un vero e proprio scontro di civiltà sembra avere come vincitore predestinato il bene. Ma allora, perché la storia sembra avere deciso di andare in un’altra direzione?

La principale falla nel discorso progressista sta nel fatto che il successo ed il coraggio, per quanto contornato da isolamento e difficoltà intimamente legate all’essere donna, si svolge in un percorso — quello accademico — che sta su un binario a tutti gli effetti separato da quello degli “altri”.

Una donna che studia ed è di successo (o che svolge qualsiasi tipo di lavoro culturale) non verrà giudicata dalla platea degli “esclusi” e delle “escluse” come un interlocutore politico valido in quanto donna, e probabilmente non verrà neanche percepita come una di loro. Verrà invece additata come una “radical chic”, che altro non è che un termine mainstream e dai connotati di classe annacquati per indicare la classe media o la piccola borghesia di sinistra.

L’affermazione per mezzo della cultura, vero totem del progressismo che aborre la lotta di classe (anche in quanto si basa sull’accettazione della cultura della classe dominante e del suo sistema di propagazione, glorificando le istituzioni dell’istruzione glorifichiamo anche la cultura che esse portano), non è compresa né accettata da chi dal sacro monte del Sapere è stato escluso perché povero, ignorante, rozzo o puzzolente.
Questo divario nell’accesso alla filiera del sapere è così forte che sotto l’etichetta di radical chic ricadono anche quelle e quelli che hanno un passato umile.

Il caso di Michela Murgia è emblematico: neanche una donna passata per il peggior precariato è risparmiata dalla furia di chi è stato tenuto al di fuori della “cittadella della cultura”.

Come si è, però, chiuso l’accesso?

Una risposta, mai troppo ovvia, è quella dell’accresciuto costo economico dell’istruzione (specie di quella superiore) e delle sempre più serrate barriere all’ingresso (numero chiuso, voto di maturità come criterio di accesso a studio e servizi).

Un’altra, più sottile, sta nella permutazione culturale avvenuta in Italia come conseguenza della fine del fordismo e della grande industria (con conseguente rivoluzione urbana e sociale, che ha comportato il sorpasso della piccola borghesia imprenditoriale sul vecchio padronato): una dicotomia reiterata tra istruzione fatta “per il bene della cultura” ed istruzione “per il lavoro”. Questi due mondi, che rispondono a composizioni di classe diverse e che poco si parlano tra di loro, hanno affrontato diversamente la fine della politica di massa: il primo è rimasto nei circoli e nelle strutture organizzative sempre più lontane da tutti, il secondo ha iniziato ad odiare il primo ed a disertare tutti i luoghi fisici importanti per questo (piazze, strade, luoghi di aggregazione politica) a favore dei luoghi di aggregazione commerciale.

Da qua, la solitudine delle progressiste e dei progressisti, relegati al ruolo di testimoni passivi di una realtà che per i più non esiste, costretti a parlare tra di loro per essere capiti ed impotenti davanti ad una Storia che è più complicata di come la insegna il manuale. A prescindere dall’esito delle regionali, appare chiaro che non sarà dei progressisti la parte del leone: nell’esito per loro migliore sarà l’affermazione della classe media imprenditoriale rappresentata da Bonaccini, con cui le sovrapposizioni ideologiche sono ben poche. Chi perde ancora una volta sono le donne, agnello sacrificale dell’imprenditoria politica di uomini di sinistra che prudentemente hanno fatto “un passo indietro”. In realtà lo hanno fatto per evitare di venire travolti dalla valanga nera in arrivo.

Stiamo attraversando una fase di transizione, con la distruzione di vecchi credi e strutture, solo che siamo abituati a chiamarla catastrofe. Chi sopravviverà alla morte del progressismo sarà in grado di formulare un’alternativa politica al sovranismo di destra. Ma prima che questo ci sia, quante tombe verranno scavate?

Articolo di Niccolò Piras

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