
Nello spettacolo teatrale La commedia della Vanità, in scena al Piccolo Teatro Strehler fino al 26 gennaio, il regista Claudio Longhi riporta in vita l’omonimo testo, tra meno noti, del saggista e premio Nobel Elias Canetti. Si tratta della rilettura in chiave contemporanea di un’opera teatrale scritta fra il 1933 e il 1934 e rappresentata per la prima volta nel 1965, le cui tematiche sono, sorprendentemente, ancora oggi terribilmente attuali.
Il punto focale dell’opera è il concetto di vanità, che viene messa al bando dai dittatori di un paese senza nome, fuori dal tempo e dallo spazio. Da un giorno all’altro i cittadini sono obbligati a rifiutare e bruciare ogni strumento che possa condurli a ostentare questa forma di vanagloria; gli oggetti che imprigionano l’uomo nella trappola della vanità, secondo le autorità, sono tre: lo specchio, le fotografie e i ritratti, i quali indicano tre diversi livelli di manipolazione della realtà. Se lo specchio riflette la rappresentazione più veritiera possibile dell’uomo, le fotografie e ancora di più i ritratti, ne propongono delle riproduzioni in grado di discostarsi anche molto dall’aspetto autentico del soggetto raffigurato, distorcendone le sembianze.

Impossibile non stabilire, dopo questo passo, un parallelo con l’era del selfie e dell’apparenza che stiamo vivendo, in cui ognuno cerca di proiettare verso il mondo l’immagine migliore di sé, la più bella e felice, anche se non sempre veritiera.
Siamo circondati da immagini modificate, filtrate e fuori dall’ordinario che ci portano a ricercare sempre il meglio dell’altro e a paragonarlo con noi stessi. Proprio come affermato durante la commedia stessa, infatti, “ci manca il coraggio di essere semplici”.
Ma è proprio grazie a una vanità consapevole, mirata all’affermazione dell’uno, che può emergere l’antidoto fondamentale a totalitarismi e tirannie. Si tratta dell’identità del singolo, urlata a gran voce dagli attori, in un palco affollatissimo, che conta ben ventitré interpreti, molto abili nell’alternarsi velocemente sulla scena per dare voce a tante tipologie diverse di esseri umani, di identità, appunto.

È anche grazie alle immagini che si affermano le nostre diverse individualità. Senza l’importanza e l’attenzione conferite alle singolarità, si cade nella prigione della dittatura. Lo stesso regista Longhi ha dichiarato che:
È una critica aspra, quella di Canetti, che non può lasciare indifferente il nostro presente, regno assoluto e incondizionato del selfie. Eppure il testo, nella sua crociata iconoclasta, ci induce a riflettere pure su come le dinamiche rappresentative siano effettivamente costitutive della dimensione identitaria. L’astinenza da immagine induce al dissolvimento dell’io, ma questo dissolvimento esaspera, per converso, il bisogno di io – aprendo la strada a sbandamenti populistici e autoritaristico-totalitari.
Oltre a testo e interpretazioni, sono fondamentali nella messa in scena anche tre elementi decorativi. In primis la musica, eseguita dal vivo da violino e xilofono, che accompagna a tratti dolcemente e a tratti con decisione quasi ogni battuta; in secondo luogo la scenografia e le luci rosso fuoco – abbinate ai dettagli permanenti di poltrone e sipario dello Strehler – che incorniciano un fuoco ardente in grado di risucchiare ogni oggetto o persona che possano tentare la vanità umana.
Per ultima, ma non per importanza, è impossibile non citare la continua interazione degli attori con il pubblico, che mira a sfondare la quarta parete e a instaurare un legame diretto e coinvolgente tra interpreti e spettatori.