Lungo i novantadue anni in cui si è svolta la storia dei premi Oscar, sono state solo cinque le donne nominate nella categoria della migliore regia.
Si tratta di Lina Wertmüller, nel 1977 con Pasqualino Settebellezze; Jane Campion, nel 1994 con Lezioni di Piano; Sofia Coppola, nel 2005 con Lost in Translation; Kathryn Bigelow, nel 2010 con The Hurt Locker – l’unica che riuscì anche a portare a casa l’ambita statuetta; e infine Greta Gerwig, nel 2018 con Lady Bird.
Sono nomi e titoli che in questi giorni sono sulle bocche di tutti: questo perché, con l’annuncio delle nomination per gli Oscar 2020, ci siamo trovati di fronte all’ennesima categoria completamente al maschile.
Da qualche anno a questa parte – più precisamente dal momento dell’esplosione del caso Weinstein e dall’inizio del movimento Time’s Up, è iniziato a essere messo sempre più in evidenza l’atteggiamento di due pesi e due misure che si tiene ad Hollywood, e che viene prepotentemente a galla tutte le volte che si deve decidere a chi assegnare i premi dell’anno.
Lo hanno dimostrato molto bene i Golden Globes del 2018: tutti gli ospiti vestivano in nero proprio a supporto del nascente #MeToo, ma quando Natalie Portman si è trovata ad annunciare i nomi dei candidati alla miglior regia, erano tutti uomini.
L’Academy ha riconosciuto il problema: si è cercato di aumentare la “diversity” tra i votanti, i numeri sono andati crescendo tra il 2015 e il 2018 e anche la componente femminile è salita dal 25% al 31%. A ben vedere, nei documentari si è arrivati alla parità di genere, cosa che spesso si riflette nelle nomine (quest’anno, quattro su cinque sono diretti o co-diretti da donne).
“Vabbè, vorrà dire che i film degli uomini quell’anno erano fatti meglio”.
“Vabbè, vorrà dire che i film degli uomini di quest’anno sono fatti meglio”.
Tyler Ruggeri propone un’interessante prospettiva sul perché i film a firma maschile siano valutati meglio rispetto a quelli a firma femminile:
“Riteniamo che più è ambiziosa la resa, più è forte l’impatto. Ma spesso si ha il risultato opposto. Al posto di immergere lo spettatore nel momento, queste innovazioni possono avere la tendenza a richiamare l’attenzione su di sé. Ci fanno indietreggiare in ammirazione quando in realtà dovremmo avvicinarci a bocca aperta. […] I votanti (che sono per lo più uomini bianchi e anziani) si identificano con questo. Dopotutto, se non puoi vedere lo sforzo sullo schermo, come puoi capire chi ha fatto cosa? Se un film non è percepito come diretto, non hanno interesse in dargli una ricompensa – per loro, tutto ciò che c’è sullo schermo è solo ‘successo’. Ma rendere le cose naturali e senza sforzo è un talento che abbonda tra le registe donne. Greta Gerwig, Olivia Wilde, Lulu Wang, Céline Sciamma, Lorene Scafaria e Marielle Heller sono eccezionali per come creano ogni inquadratura in un modo che è allo stesso tempo pieno di significato e comunque invisibile.”
Anni e anni di abitudine in questo senso hanno portato al consolidamento delle aspettative per i registi.
I cinque uomini nominati quest’anno (Bong Joon-ho per Parasite, Sam Mendes per 1917, Todd Phillips per Joker, Martin Scorsese per The Irishman e Quentin Tarantino per C’era una volta… a Hollywood) hanno fatto sicuramente dei film di altissimo livello, impeccabili sotto tutti i punti di vista, e che portano in modo chiaro la loro firma.
D’altro canto, i lavori delle sopracitate registe (Piccole Donne, La rivincita delle sfigate, The Farewell – Una bugia buona, Ritratto della giovane in fiamme, Le ragazze di Wall Street – Business Is Business, Un amico straordinario) sono di pari – se non a tratti superiore – abilità.
Lulu Wang ci fa dare la mano a Billi e a Nai-Nai e ci porta nelle loro emozioni sfruttando al massimo il linguaggio corporeo, prepara l’inquadratura dando l’idea di uno slideshow di fotografie, quasi come se i momenti che si stanno svolgendo fossero già un ricordo nella mente di Billi.
Céline Somma crea una pellicola di donne, con donne che parlano di donne ad altre donne, rappresentando il female gaze in un modo così delicato e preciso da cogliere nella realtà l’arte che sarebbe poi dovuta essere trasportata su tela.
La capacità di Greta Gerwig di raccontare una storia centenaria portando avanti e indietro lo spettatore nel racconto della vita delle sorelle March, lasciando un messaggio che era valido nel 1800 e che resta valido tutt’ora, passando dalla leggerezza all’amore alla tragedia, è irresistibile.
Florence Pugh, candidata per la statuetta di Miglior Attrice Non Protagonista per la sua interpretazione di Amy March in Piccole Donne dice: “Credo che la cosa più importante […] sia che Greta abbia fatto un film sulle donne e sulla loro relazione con il denaro, e la loro relazione con gli uomini in un mondo per uomini. E [con queste nomination] si sta solo evidenziando il suo punto. Si sta solo sottolineando ancora di più quando sia importante questo film, e come questi temi siano ancora apparenti oggi”.
È una strana ironia di fondo che non è passata inosservata neanche a Dana Stevens, che, in un pezzo eloquentemente titolato “L’Academy crede che Piccole Donne si sia diretto da solo?” scrive: “Mi limiterò all’osservazione che Piccole Donne, un film esplicitamente sull’importanza e la difficoltà di reclamare la maternità autoriale in un mondo dominato da uomini, è stato tra i migliori film del 2019, e non è stato magicamente creato da fatine del bosco, ma scritto e diretto da un essere umano donna vivente”.
Insomma, la categoria del Best Director porta alla luce un problema estremamente radicato nello showbiz hollywoodiano.
Se infatti è vero che le spinte verso una modifica radicale della società e dei ruoli di uomini e donne sono forti e hanno sempre più peso, è anche vero che bisogna andare ad agire molto più in profondità. Infatti, è verosimile che poche donne siano candidate in questa specifica categoria perché poche donne possono votare per scegliere le candidature della stessa.
La regola per essere ammessi nel ramo dei votanti per la regia prevede che si abbiano almeno due directorial credits, di cui il più recente non sia più vecchio di 10 anni, “on theatrical feature films of a caliber which, in the opinion of the executive committee, reflect the high standards of the Academy”; che almeno un film sia stato nominato per la Miglior Regia, per il Miglior Film e/o per Miglior Film Internazionale; oppure essere giudicati adeguati dal Committee per aver raggiunto “unique distinction, earned special merit or made an outstanding contribution as a motion picture director”.
Dalle colonne del Time, Eliana Docktrman scrive: “Queste regole sembrano abbastanza ragionevoli, ma presentano un grande ostacolo per le registe donne, che ricevono drasticamente meno opportunità per dirigere un secondo film delle loro controparti maschili”, come ha anche dimostrato uno studio dell’università USC Annenberg.
Si torna alla domanda sempreverde: uomini e donne sono in condizioni di parità?