Del: 31 Gennaio 2020 Di: Michele Pinto Commenti: 0

Matteo Salvini e la sua candidata, Lucia Borgonzoni, hanno perso le elezioni in Emilia Romagna. Nonostante una campagna elettorale martellante, partita fin dall’estate scorsa, la Lega è riuscita persino a perdere 70 mila voti rispetto alle Europee 2019. Nel complesso la coalizione di centro-destra ha più che raddoppiato i voti rispetto al 2014, ma lo stesso è riuscito a fare anche Bonaccini, che ha guadagnato, nel complesso, circa 1 milione di preferenze.

Chiuse le urne e diffusi i risultati, non è bastata la fulminea conferenza stampa di Salvini per evitare la ridda di interpretazioni del voto. Alcuni osservatori hanno evidenziato la debolezza della candidata Borgonzoni, ritenuta poco incisiva, altri l’eccessiva invadenza di Salvini e dei suoi modi fin troppo buschi. Sui giornali della destra hanno invece preferito sottolineare l’inevitabilità della sconfitta in una regione da decenni rossa e inespugnabile. Di certo, la mobilitazione per il voto provocata dalle Sardine e da alcune esagerazioni del leader leghista — dal citofono a Bibbiano alle giravolte sul processo Gregoretti — ha riportato al voto numerosissimi astensionisti di sinistra. Lo stesso effetto si è verificato sui Cinque Stelle, i cui elettori sono passati in larga parte al Pd.

Questi elementi dimostrano come il flusso dai grillini verso la Lega, che ha caratterizzato la scena politica dal 2018 ad oggi, si è concluso. Si va adesso affermando uno scenario bipolare, con il progressivo rafforzamento del Pd e del centro-sinistra in funzione anti-salviniana.

Il principale responsabile di questa dinamica è proprio Matteo Salvini.

Dal fatidico 8 agosto non c’è stata mossa, né iniziativa che alla lunga non si sia rivelata controproducente per il suo partito. Al netto dei meriti per aver portato la lega dal 4 al 30 per cento, è chiaro che la parabola ascendente si sia ormai conclusa. Salvini ha avuto a lungo la possibilità di affermarsi con forza come il leader definitivo di un centro-destra governativo e rassicurante e di incrementare ulteriormente i consensi. Così non è stato, solamente a causa delle sue velleità elettorali e, forse, della sua indomabile indole barricadera.

La madre di tutti gli errori è la crisi ferragostana scatenata dal Papeete. Tra qualche anno, quando gli storici riscriveranno le misere vicende della nostra epoca, probabilmente individueranno in quel momento l’inizio del declino del segretario leghista, che in pochi giorni ha perso il potere, ha subito una flessione nei sondaggi ed è stato costretto ad accomodarsi all’opposizione. Ancora oggi la mossa resta incomprensibile. E se quelli furono giorni drammatici, non c’è dubbio che il tentativo di forzare la strada per un voto anticipato, fallito, e la successiva offerta di Palazzo Chigi all’ex amico Di Maio rientrano più agevolmente nella categoria della farsa.

Anche sul caso Gregoretti l’ex vice-premier sembra aver giocato una pura carta elettorale, tanto che l’autorizzazione a procedere è passata con i voti favorevoli dei soli senatori leghisti. Per settimane aveva parlato contro il processo e dichiarato di voler votare contro, ma alla fine ha fatto una giravolta. Appare evidente, ancora una volta, l’intenzione di intercettare i sentimenti anti-immigrati e di collocarsi nella posizione della vittima. E anche questo non ha funzionato.

In Emilia Romagna Salvini ha trasformato il voto in un referendum sulla sua persona, proprio come il suo omonimo Renzi aveva fatto nel 2016. E ha perso.

Ha guadagnato punti percentuali e visibilità, ma ha perso. L’errore è stato affrontare un voto locale di una regione benestante e ben amministrata come una sfida nazionale al governo e a tutti gli altri partiti. Bonaccini ha sottolineato, nel suo discorso della vittoria, l’irricevibilità di una simile posizione, in primis per gli emiliani. La campagna del leghista è stata pervasiva, tambureggiante. Ha battuto soprattutto i piccoli comuni, dove infatti la sua strategia ha colto nel segno: sull’Appennino e nella bassa ferrarese la Lega è rimasta davanti al Pd. Ma non ha sfondato nelle città, dove ormai da anni fatica a raccogliere consensi significativi. Potrebbe essere l’ennesimo capitolo della contrapposizione globale tra popolo ed élite, ma una simile interpretazione sarebbe una scorciatoia facile. Probabilmente, molto più banalmente, i problemi descritti da Salvini e dalla sua propaganda non hanno rispondenza nelle città e quindi non portano voti.

Anche gli alleati nel centro-destra sono una spina nel fianco. Giorgia Meloni è in grande ascesa e dall’anno scorso in Emilia ha guadagnato 85 mila voti, in larga parte sottratti a Salvini e frutto di una leadership più rassicurante e concreta. Persino Berlusconi ha tratto giovamento dalle difficoltà leghiste e una sua candidata ha vinto in Calabria. L’area più liberale del centro-destra resta in sofferenza, ma non è improbabile che una leadership rivitalizzata e nuove idee possano contribuire a indebolire ulteriormente l’ex ministro dell’Interno.

Oggi Salvini appare spaesato, in grande difficoltà. Accampa pretesti per la sconfitta e si tuffa su ogni ipotesi di via d’uscita che gli balena davanti. Propone governi di tregua e lancia la sfida per le prossime elezioni regionali. Non ha più una strategia precisa né una strada definita da percorrere. Vive, politicamente, un po’ alla giornata. Insomma: sembra aver perso la bussola. Si rende conto, forse, che la strategia adottata fin dal 2013, quando la Lega lo scelse come segretario, non può pagare all’infinito. A furia di puntare tutto sulla perenne e sterile contrapposizione tra buonisti e veri italiani, a un certo punto ha trovato un competitor all’altezza, dalle caratteristiche opposte: mite, posato, concreto. Bonaccini l’ha battuto anche perché ha personificato, plasticamente, l’anti-Salvini. E il leader leghista adesso non sa se insistere con la sua strategia o cambiare passo.

Naturalmente non è certo che Salvini non riesca a riprendersi in breve tempo.

E nemmeno che in un modo o nell’altro non finisca per arrivare a Palazzo Chigi. Del resto, la politica italiana ha abituato a leader deboli e in calo di consensi che approdano comunque al governo e vi restano anche a lungo. Anzi: più un governo e i suoi esponenti sono deboli, più paradossalmente esso è destinato a durare per la paura del voto, come il Conte II dimostra bene. Di certo, però, per Salvini è iniziata una nuova fase, meno arrembante e più conservativa, finalizzata a consolidare il consenso che ha raccolto e ormai rassegnata a dover affrontare le elezioni politiche tra molti mesi.

Il progetto di accelerare il ritorno alle urne è naufragato. Anche all’interno della Lega sembrano intensificarsi le voci critiche rispetto alla strategia in Emilia e allo stesso Salvini. Il leader leghista può ancora sperare di durare, ma per farlo deve ripartire dal suo partito, rafforzarsi e rinunciare alle derive estremistiche incomprensibili a larga parte dell’elettorato moderato. Chissà se ne sarà capace.

Michele Pinto
Studente di giurisprudenza. Quando non leggo, mi guardo intorno e mi faccio molte domande.

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