Del: 14 Gennaio 2020 Di: Valentina Testa Commenti: 0

Tre cose uniscono gli italiani: i mondiali del 2006, Albano e Romina che cantano Felicità e le discussioni su Checco Zalone.

Checco Zalone, che in molti vedono come la Maschera italiana del (ormai scorso) decennio, è l’unico in grado di portare tutti – ma proprio tutti – al cinema. Il suo enorme successo lo avevamo già capito grazie a Quo Vado?, che nel 2016 fu campione d’incassi e segnò la consacrazione definitiva di Zalone come massimo esponente della commedia tendente al satirico italiana. O meglio, la consacrazione di Luca Medici, il vero uomo dietro la maschera: perché Checco Zalone in realtà non esiste, se non sul palcoscenico. Il personaggio, creato per il cabaret, che raccoglie su di sé tutti gli stereotipi del meridionale prima e dell’italiano medio più in generale poi, niente altro è che – appunto – una maschera, che Medici indossa in continuazione per fare commedia. Zalone, tra l’altro, non è un personaggio fisso che si muove nei vari film, ma ogni volta va a mettere in scena un “tipo” diverso ma sempre molto simile a quello di prima. Simbolo di questo è il fatto che ogni volta cambia paese d’origine: da Polignano a Mare a Spinazzola, Luca Medici vuole farci capire che si può trovare un Checco Zalone in ogni parte d’Italia.

Unica costante dei “film di Checco Zalone” è il modo di fare commedia: sempre, immancabilmente, il Nostro Eroe si trova in situazioni in cui viene fuori la sua ingenua ignoranza, che lo porta a fare e dire cose spesso e volentieri offensive senza rendersene conto, scatenando così l’ilarità. Zalone, d’altra parte, non si preoccupa mai di dare un messaggio chiaro al pubblico: ma la sua satira funziona perché, grazie al contesto dell’intero film e sfruttando il “second-hand embarrassment”, lo spettatore capisce dov’è l’offesa. Lo vediamo bene in Cado dalle nubi, in cui Checco canta “I uomini sessuali” in un gay bar: è innegabile che la canzone sia offensiva e non velatamente omofoba, ma Zalone (o meglio, Medici) non ha bisogno di dirlo in modo esplicito durante il film perché è il contesto stesso della canzone, il modo in cui è caratterizzato il personaggio che la canta, la ricezione del pubblico ovviamente offeso a far capire a chi guarda l’errore.

La campagna pubblicitaria per Tolo Tolo, l’ultimo film questa volta anche diretto la Luca Medici, è stata tutta in un videoclip in cui Zalone canta “Immigrato”, l’ennesima canzone piena di luoghi comuni che vede come protagonisti lui e un non meglio definito africano che si infiltra nella vita del protagonista. La cosa ha (abbastanza inspiegabilmente, dato che ormai sarebbe dovuta essere chiara l’ironia di Zalone) scatenato gli animi politici di sinistra e ha riscaldato i cuori di destra, tanto che Matteo Salvini in persona ha lodato Zalone dicendo: “Lo hanno accusato di essere razzista e politicamente scorretto. Ma viva Checco Zalone, io lo voglio senatore a vita”.
Se non fosse che, quando poi Tolo Tolo è effettivamente uscito in sala l’1 gennaio 2020, la stessa ala di destra si è sentita tradita nelle sue aspettative: Ignazio La Russa ha commentato in un tweet: “Zero applausi alla fine. Oltretutto anche scarso e noioso” e Maurizio Gasparri in un video su Facebook ha detto: “Checco, alla fine ti sei consegnato anche te al politicamente corretto immigrazionista. […] Alla fine c’è una morale un po’ sinistrorsa”. In effetti, a chi sta dichiaratamente più a sinistra Tolo Tolo non è dispiaciuto: Saverio Tommasi sostiene: “Zalone è proprio bravo, sono contento che abbia fatto questo film, sono contento di essere andato al cinema a vederlo. Ho riso tre volte, più due e mezzo che tre” e Michela Murgia twitta “Vorrei nei politici di sinistra la metà del coraggio dimostrato da Checco Zalone in #tolotolo, la stessa libertà di rischiare il gelo ai titoli di coda perché ha preferito il senso al consenso”.

Quindi: Tolo Tolo è un bel film? No.

La pellicola di Zalone tratta la tematica odierna e scottante dell’immigrazione non solo con sbagliata leggerezza (forse in modo addirittura eticamente irresponsabile, dal momento che Medici – co-adiuvato nella scrittura da Paolo Virzì – conosce la forza d’impatto di Zalone), ma cade fin troppo spesso anche nella misoginia e nella becera retorica del white saviour. Il tutto condito da un razzismo di fondo che è, per usare le parole di Andi Nganso, “la storia dell’antirazzismo in Italia. Tante buone intenzioni ma nessuna voglia di provare la fatica di decostruire il sistema profondamente razzista, misogino e discriminatorio prima di mettere gli stivali della battaglia”.

Partiamo da un presupposto importante: fare commedia fa bene e si può ridere di tutto – anche delle situazioni più dure che si sviluppano in contemporanea a quando si fanno le battute. Con la satira si può dire tanto, forse anche di più che con il dramma, e non sempre bisogna richiedere che il messaggio sia detto chiaro e tondo alla fine, come se fossimo in un racconto di Esopo. Però è anche vero che esiste l’umorismo studiato e che esistono le cose fatte male. Tolo Tolo è fatto male.

Checco Zalone è ora un sognatore di Spinazzola che finisce sommerso dai debiti in apertura di film. Si nasconde allora in Kenya da dove poi dovrà scappare per via della guerra e dei terroristi e si trova quindi ad affrontare lo stesso viaggio della speranza dei migliaia di migranti che approdano alle coste europee ogni giorno. Checco non riesce mai a staccare gli occhi da quella che considera la sua tragedia personale e resta, dall’inizio alla fine, un personaggio senza sviluppo che non viene mai esplicitamente contraddetto dai suoi compagni di viaggio, che, anzi, quando lo sentono dirne una delle sue, abbozzano un mezzo sorriso, come a dire “che tonto, questo…”. En passant vediamo la presa in giro di radical chic, giornalisti impegnati, salviniani, Europa e addirittura Macron – che restano le parti meglio riuscite del film, accompagnate dalla parodia del ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

A dimostrazione, in realtà, che Medici è perfettamente in grado di fare satira e commedia sul suo paese e sui suoi connazionali: quindi perché il resto del film è da buttare via?

Perché Zalone qui si approccia al diverso sottolineando che questo è diverso. Il Checco di Tolo Tolo si identifica immediatamente come white saviour non appena arriva nel villaggio di Omar, e ci porta con lui nel suo sogno di salvatore di popoli: quando i venti cambiano e il villaggio non lo vuole più, però, non vediamo la stessa attenzione all’uomo bianco motivo di sfortuna che abbiamo visto per l’uomo bianco motivo di fortuna. Siamo costantemente immersi nella mente di Checco che non si rende mai conto di non essere al centro del mondo: questa convinzione nasce certo dalla sua proverbiale ignoranza, ma anche quando dovrebbe essere definitivamente corretta, non lo è. Checco, nelle uniche tre volte durante tutto il corso del film in cui finalmente sente il suo ego scalfito, ha degli “attacchi di fascismo”: cosa che già detta così fa alzare le sopracciglia, ma tutti tranquilli, perché peggiora. Le voci che sente nella testa con sottofondo di marcia di tromba e la parlata mussoliniana che sembra venirgli spontanea sono diagnosticate da un medico proprio come “attacchi di fascismo” che, ci dice lo stesso medico, sono naturali per tutti, perché tutti abbiamo del fascismo dentro! Ah sì?, chiede il Nostro, e come lo curo il fascismo che ho dentro? Ma che domande fai, Checco, come vuoi curare il fascismo, scusa? Con l’amore!!!

L’amore per Checco è Ijaba, l’unico personaggio con il vero potenziale di mandare un messaggio forte agli spettatori. Ijaba scopriamo essere una militante delle forze ribelli e sarà l’unica persona che vedremo prendere in mano un mitra e aprire il fuoco sui militari del regime. Una donna forte che ha preso con sé il figlio dell’amica defunta per farlo riunire con il padre. Checco è innamorato di lei sin dall’inizio del film, ma la rappresentazione di quest’infatuazione è fatta così male da non avere neanche un momento salvabile. Il clou è raggiunto quando, su un pullmino, Checco sogna di cantare con tutti i suoi compagni di viaggio che “la gnocca salva l’Africa”. In realtà questo se la gioca con il finale, in cui vediamo Ijaba, che avevamo lasciato sulle coste libiche probabilmente per unirsi di nuovo alle forze di resistenza, arrivare in abito da sposa a Trieste a bordo di una nave, per unirsi con Checco; alquanto inspiegabilmente, dal momento che non ha mai mostrato il minimo interesse romantico verso di lui.

Per concludere arriva la canzone finale, che al meglio rappresenta gli intenti del film. Perché si vede che Luca Medici ha fatto tutto con le migliori intenzioni, si capisce che gli “attacchi di fascismo” sono lì per ridicolizzarlo e che il famigerato “razzismo inverso” non esiste – ma nonostante questo non è stato in grado di staccarsi dalla sua visione privilegiata di uomo bianco etero che si scrive protagonista della sua storia.
La cicogna strabica è la canzoncina simil-Zecchino d’Oro con cui Zalone risponde alla domanda “Di chi è la colpa se sono nato in Africa?”. Del caso: che è vero! Non c’è un motivo per cui si nasce in una parte del mondo più privilegiata o meno privilegiata. Noi occidentali possiamo dirci fortunati ad essere nati nei paesi del cosiddetto Primo Mondo, ed è tutta una questione di caso. Medici trova un modo carino per spiegarlo ai bambini, e si inventa la storia della cicogna strabica, che porta i bambini in Africa per caso.
Se non fosse che non tutte le cicogne sono strabiche: quelle che ci vedono bene e che sanno fare il loro mestiere portano i neonati in Germania, in Italia, negli Stati Uniti… invece, quelle sbagliate, quelle incapaci, quelle che vogliono andare a trovare il “cicogno nero” finiscono in Africa.

Luca Medici e Paolo Virzì hanno scritto questa scena nel film. Una scena divertente in cui tanti bimbi neri cantano e ballano mentre un uomo bianco gli dice che essere nati in Africa è una sfortuna dovuta a una cicogna strabica. Perché è di questo che abbiamo bisogno. Abbiamo proprio bisogno di rivolgerci ai bambini neri che ci sono in Italia dicendo loro che la loro provenienza è una maledizione, abbiamo bisogno del pubblico di bianchi di mezz’età che di fronte a questa scena rida e si convinca ancora di più che è vero, il nero che vedono per strada è un poveraccio, condannato prima che da una società razzista che non lo vuole, dalla dannazione della sua pelle nera intrinsecamente sbagliata”, scrive @afrizox su Twitter.

Il tutto si conclude con Checco che sale su una mongolfiera e va via, con la promessa di tornare con “100kg di permessi di soggiorno”: applaudito dai bambini, sale su nel cielo, apre le braccia proprio come se fosse l’unico salvatore di popoli e il film si chiude.

Tolo Tolo, quindi, rifugge tutte le aspettative che aveva creato con il trailer, lo fa nel modo sbagliato e fallisce in tutti i suoi obiettivi. Non bastano i buoni propositi e non basta essere considerato il più grande comico del momento in Italia per fare del buon umorismo. Non basta la solita dislocazione e non bastano le solite battute in salse diverse. Nel complesso, Tolo Tolo è un grande fallimento e anche una grande delusione. Forse, con un maggiore studio alle spalle e un po’ di lavoro in più, avremmo potuto avere un gran bel film sulla situazione attuale italiana che avrebbe anche fatto ridere.

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Valentina Testa
Guardo serie tv, a volte anche qualche bel film, leggo libri, scrivo. Da grande voglio diventare Vincenzo Mollica.

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