Il 2020 è iniziato col botto, letteralmente.
L’uccisione, compiuta il 3 gennaio, del generale Soleimani, capo delle guardie rivoluzionarie iraniane e uno degli uomini più influenti non solo in Iran ma in tutto il Medio Oriente, ha incrinato ancor di più le relazioni con quella polveriera che è il Medio Oriente e gli USA.
La mossa, autorizzata da Trump stesso, ha avuto enormi ripercussioni sulla scacchiera internazionale, sia sul piano diplomatico che su quello economico – le borse e l’innalzamento del prezzo del petrolio parlano chiaro. E mentre non solo in Iran l’ormai defunto generale viene beatificato – si potrebbe dire anche “venerato” – come un martire e in tutto il mondo si è sparsa una certa psicosi da possibile conflitto su larga scala, quest’azione potrebbe aver assicurato le presidenziali di quest’anno per il tycoon. Ma andiamo con ordine.
Qasem Soleimani era un pezzo grosso, molto grosso. Chi segue le vicende in Medio Oriente di sicuro lo conosceva già prima che il suo nome comparisse sulle testate di tutto il mondo. Come già detto, Soleimani non era semplicemente un generale, era in assoluto uno degli uomini più potenti e temuti non solo in Iran ma in tutto il Medio Oriente, capo delle guardie della Rivoluzione, i pasdaran, e di un’unità militare di miliziani scelti chiamata “al Quds”.
Egli di fatto è stato il principale nemico della politica estera Usa in quella parte del mondo; la sua missione principale infatti è sempre stata quella di bloccare l’interventismo di Stati Uniti, Israele ed Arabia Saudita negli ultimi 20-30 anni. Ma non solo. Soleimani infatti è stato l’uomo che ha gestito, anzi, combattuto e sconfitto le avanzate dell’Isis e delle altre forze terroristiche a matrice islamica in Iran e Siria.
Da queste poche righe sembra il ritratto di un eroe di guerra senza macchia, ma di macchie ce ne sono.
Innanzitutto, bisogna ricordare il suo sostegno e le sue azioni a favore di Bashar al Assad contro i ribelli siriani. Soleimani era diventato uno specialista nell’outsourcing delle guerre iraniane: per evitare di perdere il maggior numero di fidati iraniani, creava altre milizie reclutando volontari in tutto il mondo sciita, spesso poveri, adolescenti in fuga o chiunque non aveva mezzi per sostenersi in Iran. Praticamente della carne sacrificabile.
Le sue tattiche nella “contro-insurrezione” siriana erano semplici: assediare una zona senza fare distinzione tra civili e combattenti ribelli, lasciar terminare le risorse e fucilare con cecchini chiunque si muovesse nell’area interessata. È impossibile calcolare i morti per mano sua, dato l’elevato numero di vittime del conflitto siriano.
In Iran e in Iraq si occupava di soffocare ogni protesta facendo scappare ben volentieri il morto. Già durante le proteste del 1999 aveva scritto una lettera al presidente chiedendo di reprimere le manifestazioni “altrimenti interverremo noi” – i giorni successivi verranno segnati da decine di morti per mano di forze di sicurezza la cui spina dorsale erano i pasdaran. È anche il responsabile degli oltre 500 morti durante le proteste di Baghdad dell’ottobre scorso, è stato lui a dirigere l’intervento delle forze di sicurezza irachene, a insegnare loro come “tenere tutto sotto controllo”.
È stato lui, secondo l’intelligence americana, a istigare le proteste contro l’ambasciata statunitense a Baghdad dello scorso dicembre, in risposta all’uccisione di una ventina di miliziani iracheni facenti parte al gruppo chiamato Kataeb Hezbollah, ritenuto responsabile di una serie di attacchi contro basi USA in Iraq e dell’uccisione di un soldato americano durante uno di questi raid – gruppo legato a doppio filo a Soleimani, visto che nella stessa macchina colpita dal drone statunitense il 3 gennaio vi era pure Abu Mahdi al Muhandis, il capo della suddetta unità.
Il generale riusciva inoltre a tessere legami che andavano al di là di ogni differenza religiosa o nazionale quando si parlava di agire contro gli Stati Uniti, pure se si stava parlando di gruppi terroristici. Nel saggio “The Exile” (Bloomsbury Publishing) viene raccontato come, dopo la fuga dall’Afghanistan, nel 2006 i capi di al Qaeda vennero catturati in Iran. Eppure, sempre secondo il testo, la prigionia si trasformò qualcos’altro, con Soleimani che si prendeva cura dei figli di Bin Laden, tanto da rilasciare il giovane Hamza con discrezione poco tempo dopo considerandolo un degno successore del padre. Il generale aveva capito che potevano tornare utili un giorno.
Un uomo dai mille volti, questo Qasem. Data la fama non solo in Iran, la sua morte pare abbia rafforzato il sentimento antiamericano iraniano, invece che mettere in crisi il Paese.
Ma adesso cosa si rischia sul piano internazionale? Si può davvero arrivare ad un conflitto su larga scala? Al contrario di come verrebbe da pensare, questa ipotesi è assai improbabile. Tuttavia, di sicuro aumenteranno le rappresaglie, gli attacchi mirati e la propaganda antiamericana per scacciare le forze internazionali da quell’area.
Tutto ciò verrà affidato alle milizie legate al defunto generale. È importante infatti che queste operazioni non dovranno essere riconducibili direttamente all’Iran, o l’Amministrazione americana potrebbe agire ancora, con la possibilità di rendere ancor più tesa la situazione.
La risposta di Teheran non deve dare troppe preoccupazioni – i 22 missili balistici iraniani scagliati su due basi irachene che ospitano soldati statunitensi e della coalizione internazionale anti-ISIS. Benché alcuni media iraniani abbiano parlato di 80 vittime, questa cifra è stata sinora smentita sia dagli USA che dalle altre forze straniere presenti in Iraq. Da parte sua, Teheran ha rivendicato la legittimità dell’attacco come misura “proporzionata” di autodifesa nel rispetto del diritto internazionale sancito dall’ONU: la rappresaglia, ha commentato il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif su Twitter, è stata “conclusiva”, a segnalare che l’Iran “non vuole una escalation né la guerra, ma è pronto a difendersi da qualsiasi aggressione”.
Questa risposta è stata un messaggio chiaro, ma più che uno “schiaffo in faccia” – com’è stato definito da Khamenei – si può considerare al massimo un “buffetto”, e il Paese dovrà ora rispondere pure dell’aereo ucraino abbattuto per errore. L’Iran lo sa, non sarebbe mai in grado di sostenere una guerra contro gli USA, non ha le misure finanziarie e gli è venuto pure a mancare l’asso nella manica, ossia la minaccia di una crisi petrolifera che farebbe schizzare in aria i prezzi della benzina, facendo infuriare i fan di Trump. Eppure, nonostante ci sia stato un leggero innalzamento del prezzo del greggio – poi ribassato – e agenzie come Moody’s riferiscano che il prolungarsi delle tensioni o di un conflitto potrebbe danneggiare i mercati globali, nulla è paragonabile alle impennate del secolo scorso.
Questo perché ormai gli Stati Uniti sono autosufficienti dal punto di vista energetico e una guerra petrolifera sarebbe solo dannosa per l’Iran, che vedrebbe il petrolio americano diventare più conveniente. Pure Mosca, alleata di Teheran, non avrebbe interessi in una simile situazione. L’Iran metterebbe in crisi l’Asia e l’Europa, ma non il suo più acerrimo nemico.
Quest’arma da molto tempo in mano all’OPEC sta ormai perdendo credibilità. È finito il tempo dei monopoli dell’oro nero e la concorrenza ha vinto. Ora gli USA sono tra i principali esportatori di greggio, e tra Africa equatoriale, Sud America, Mediterraneo e Mare del Nord è difficile per i vecchi signori del petrolio fare ancora la voce grossa.
Tuttavia le tensioni diplomatiche non terminano qui. L’ambasciatrice USA all’ONU, Kelly Craft, fa sapere che Washington è disponibile al dialogo per evitare ulteriori escalation. La risposta iraniana è stata secca: impossibile agire con le attuali sanzioni americane in vigore.
Trump sembra voler rendere la vita della Craft molto complicata, annunciando l’aumento delle sanzioni e che Soleimani voleva far esplodere l’ambasciata statunitense a Baghdad. Tutto ciò tradotto dall’ambasciatrice come “la difesa dell’articolo 51 della Carta dell’ONU” – misure di auto difesa.
Quel che è paradossale, è la probabilità che questa situazione si riveli la carta vincente per un secondo mandato di Trump nelle presidenziali di quest’anno. Situazione simile è già successa con Bush, rieletto nel 2004 dopo lo scoppio della guerra in Iraq nel 2003 benché il consenso fosse ai minimi. L’elettorato statunitense, in questi casi, sembra rafforzare il supporto verso il presidente uscente, in modo che la vecchia Amministrazione gestisca (o termini) la crisi nata durante il mandato precedente.
Tuttavia, in quest’opera alla Jackson Pollock che è il mondo agli albori del nuovo decennio, noi possiamo stare tranquilli. Nessuno correrà il rischio di veder sorgere il sole a mezzanotte.