Del: 19 Febbraio 2020 Di: Fabrizio Maroni Commenti: 0

Di scuola, si sa, in Italia si parla poco. La pubblica istruzione diventa oggetto di dibattito principalmente in due occasioni: quando un governo bisognoso infila le mani nel grande salvadanaio scolastico e quando, periodicamente, un rapporto OCSE-PISA ci ricorda che siamo degli asini.

L’istruzione, non è un mistero, ha un ruolo fondamentale nella crescita di un Paese, per una semplice questione anagrafica: gli studenti di oggi saranno i lavoratori, gli elettori, i cittadini, i dirigenti di domani. Ma ha un ruolo ancor più importante nella crescita individuale.

La scuola è un luogo, per molti ragazzi l’unico, che può offrire agli studenti una visione del mondo differente da quella cui sono stati abituati sin da bambini, dalla famiglia, dalla città o dal quartiere in cui sono cresciuti. Il compito fondamentale della scuola dovrebbe essere, insomma, quello di fornire agli studenti gli strumenti per comprendere la realtà e assumere consapevolezza del proprio ruolo. Ridurre l’esperienza scolastica a una mera rampa di lancio diretta sul mercato del lavoro è quantomeno avvilente.

Invece sembra proprio questo il mantra che ha ispirato le ultime riforme dell’istruzione: preparare i giovani studenti alla vita lavorativa. Principio sacrosanto: lo Stato deve ovviamente badare alla formazione dei lavoratori di domani, che altrimenti si troverebbero senza bussola in una realtà lavorativa in continua trasformazione. Ma, presi dall’ansia di raggiungere gli altri paesi nelle classifiche sul rendimento degli studenti (in cui comunque ci piazziamo sotto la media OCSE) e di equipaggiare i futuri lavoratori, sono stati trascurati problemi ben più profondi della scuola italiana.

Primo fra tutti, l’analfabetismo funzionale. Secondo il rapporto PISA 2018 quasi un quarto degli studenti italiani non raggiunge il livello 2 (quello base) in lettura: significa che non sono in grado, fra le altre cose, di “confrontare le affermazioni e valutare le ragioni che le sostengono sulla base di brevi ed esplicite dichiarazioni”, secondo la definizione dello stesso rapporto.

Forse, l’eccessivo nozionismo e la lezione frontale vengono troppo spesso preferiti ad attività che mettano in gioco lo sguardo critico e creativo degli studenti.

Ma un problema ancora più radicale è il classismo, risultato di un sistema che divide i percorsi scolastici in due grandi blocchi: da un lato i licei, dall’altro gli istituti tecnici e professionali.

La prima riforma in questo senso, nel nostro Paese, risale al 1923 e porta la firma di Giovanni Gentile. Da allora sono stati apportati parecchi cambiamenti, ma nessuna modifica strutturale è mai stata messa in atto.

La scuola, che dovrebbe livellare le diseguaglianze e fornire agli studenti i mezzi per emanciparsi, finisce così per consolidare quelle stesse diseguaglianze.

Un annoso problema, comune in realtà a molti altri paesi: secondo il citato rapporto PISA del 2018, a livello globale il divario nel rendimento fra bambini ricchi e poveri si manifesta fin dai dieci anni di età. Un’indagine di Almadiploma del 2016, questa tutta italiana, ci dice invece che solo un liceale su sei proviene da una famiglia di operai, impiegati esecutivi o lavoratori subalterni. Una vera e propria segregazione scolastica che si riflette anche sul corpo docenti: Orizzontescuola.it, citando un comunicato dell’Associazione Nazionale Insegnanti e Formatori, scrive che gli insegnanti precari, giovani e con meno esperienza o non abilitati tendono a concentrarsi nelle scuole periferiche, incidendo sulla discontinuità didattica, oltre che sulla qualità dell’insegnamento.

Appare allora chiara la realtà: è inevitabile che la famiglia e il contesto sociale influenzino la crescita individuale; ma, allo stato attuale, la scuola si dimostra impotente nel dare a tutti le medesime possibilità, cosicché il percorso scolastico e formativo sembra il risultato di un destino già scritto.

Fabrizio Maroni
Studente di Scienze Politiche. Ogni mio sforzo è volto principalmente a non addormentarmi, esprimo pareri che nessuno ha chiesto.

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