Del: 12 Febbraio 2020 Di: Redazione Commenti: 0

Il tentativo di questa rubrica è quello di essere utile per chiunque riconoscesse in sé o in qualcuno di vicino una forma di malessere. La sensibilizzazione è importante nel momento della comprensione e dell’azione, in quanto spinge alle opportune cure mirate.


L’anoressia è il disturbo che viene marcato maggiormente dalla minaccia dei luoghi comuni, che aleggiano intorno ad essa come spettri infestanti.

Togliamo subito di mezzo il grande fattore di intralcio: estetica. L’anoressia non ha niente a che vedere l’estetica, non è questione di voler assecondare un ideale sociale che desidera una figura femminile magra e perfetta.

Nel momento in cui riduciamo questa patologia all’aspetto fisico non stiamo rendendo giustizia a chiunque soffra di questo disturbo, così complesso e sfaccettato. L’anoressia tende a proiettare sul cibo uno scopo, frutto di una grande sofferenza dovuta a negligenze, abusi e traumi di varia natura: scomparire. È uno scomparire lento e progressivo, che utilizza il corpo e l’assenza di cibo come mezzo per realizzare questo scopo, ma è a sua volta una richiesta di aiuto, in molti casi.

Infatti, il ricorrere a un’abnegazione lenta e graduale indica proprio il fatto che vi sia ancora posto per la speranza di un’ultima ancora di salvezza. Il progressivo dimagrimento è il segno più evidente di una disperata richiesta di aiuto.

Per questo occorre saper riconoscere i primi dettagli di questo disturbo in chi ci sta vicino, perché potrebbe essere tacite richieste di soccorso.

In una fase iniziale è difficile scovare i meccanismi di funzionamento della persona che soffre di anoressia. Nella cosiddetta fase della “luna di miele” vi è un sottofondo euforico tale per cui tutto ruota effettivamente intorno alla perdita di peso come proiezione del risultato dello stare bene. Ho perso peso, è come se avessi perso parte del mio dolore. Con il tempo il tutto diventa più invalidante a causa della maggiore perdita di peso e l’aggiunta dei sintomi di disordine cognitivo dovuto all’apporto calorico minimo.

A causa della restrizione alimentare, si ha una difficoltà nel riconoscere le emozioni e deficit cognitivi. Ma non è solo per una questione di chimica e di apporti di nutrienti, è proprio per il fatto che la persona che soffre di anoressia ha come scopo lo smettere di soffrire. Si chiude sempre di più in questa armatura di anedonia e apatia rispetto al sé, proprio perché desidera non volere e non sentire, proprio perché non riesce ad accettare quel doloroso sentire che lo ha connotato fino ad allora e lo ha portato a voler solo desiderare di scomparire.

La bassa autostima è correlata al fatto che vi sia un’estrema rigidità nel pensiero dovuta proprio al timore di spaziare. Scontrarsi con la propria persona implicherebbe scontrarsi con una concezione di sé che ha a che fare con il dolore, non esiste una visione distinta.

La persona coincide con il dolore che ha provato o che prova.

Rigidità dovuta agli schemi che creano sicurezza, e infrangerli è un costo emotivo troppo alto. Ecco che il cibo, in questa analisi, passa in secondo piano ed emerge in primo piano il dolore di un individuo. Pertanto: l’anoressia non è questione di vedersi “grassi”, certo ci possono essere questioni di visione alterata di sé in casi molto gravi, ma si tratta di proiezione. Proiettare sul cibo un ideale di assenza di dolore, perché la realtà è avvertita come intollerabile. La persona che soffre di anoressia desidera scomparire e avverte il proprio corpo come scomodo, ingombrante, pesante nei termini di esistenza. 

Nel momento in cui affermiamo che il mondo della moda, per esempio, spinge all’anoressia commettiamo un errore: esso porta a comportamenti disfunzionali, talvolta, ma le cause che si celano al di sotto di alcuni casi di modelle che si sono ammalate sono ben più complessi.

Si tratta di cosa hanno proiettato su quell’incarico e sulla sua riuscita, non solo di questioni di successo e fama. Smettiamola di ridurre il profondo dolore di chi è “fino all’osso” (anche titolo di un film uscito nel 2017 sul tema).

Eppure, esiste una cura per questo disturbo della condotta alimentare.

Innanzitutto, la terapia psicofarmacologica serve esclusivamente, come in ogni disturbo, per alleviare i sintomi che possono interferire con la terapia. Si parla di antidepressivi per andare incontro alle manifestazioni di stati depressivi dovuti alle conseguenze comportamentali. Oppure, si possono prescrivere ansiolitici in caso di sintomi come fobie e ansie sociali.

Ma, almeno in questa rubrica, si continua a sostenere l’importanza del fattore della terapia di parola. La terapia cognitivo comportamentale CBT- E., ideata da Christopher Fairburn, è mirata al trattamento dell’anoressia e prevede tre fasi. Prima fase: cambiamento attivo, il paziente deve voler guarire, manifestando dunque volontà di voler affrontare il proprio problema alimentare. Seconda fase: sottofase nutrizionale, nella quale l’indice di massa corporeo deve rientrare nella norma, pertanto la durata del trattamento dipenderà dal raggiungimento del valore BMI tra 19 e 20. Sottofase emotiva, nella quale si provvede al riconoscimento della proprie emozioni, in modo tale da non cadere nella trappola del “pensiero caduto dal cielo”, che fa sì che il tutto sia più confuso ed enfatizzato.

L’ultimo passo ha come obiettivo quello di affrontare le preoccupazioni legate alla fine del trattamento e di prevenire rischi di ricaduta.

Piccola postilla: nel momento in cui quel passo indietro viene compiuto e si ha la fortuna di saper chiedere aiuto, ecco che si prospetta un’alternativa. In una società che ci insegna a essere autonomi e indipendenti, occorre andare controcorrente e avere l’ardore di attuare la distinzione tra “debole” e “fragile”.

Essere fragile equivale al crollare, certo, al rompersi in pezzi che, però, possono essere ricomposti. Debole è invece chi non ha possibilità di essere aiutato.

Articolo di Chiara Dambrosio.

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