Del: 16 Marzo 2020 Di: Martina Di Paolantonio Commenti: 0

Lo voglio dedicare, questo premio, a tutti gli storti, tutti gli sbagliati, tutti gli emarginati, tutti i fuori casta.

Su queste parole Elio Germano (Giacomo Leopardi ne “Il Giovane Favoloso”) ritira il suo Orso d’Argento sul palco della Berlinale70. Un orso che sembra creato appositamente per il personaggio da lui interpretato, a cui hanno chiesto “Ma lei, sa fare solo delle bestie?!”. Si parla di Antonio (Toni) Ligabue, il protagonista della scena pittorica naif italiana.
Volevo nascondermi, regia di Antonio Diritti, racconta la storia di un uomo, la cui arte è una conseguenza della sua sofferenza, un uomo che voleva nascondersi, appunto, dalle cure mediche, dalle persone intorno a lui, e anche da se stesso.

Il film è la vita di una persona categorizzabile come “matta” – richiamando per certi versi il Joker di Todd Phillips – gli dicono “sei un errore, non meriti di esistere”, è un altro personaggio che a causa di una gioventù traumatica, segnata dalla perdita della mamma biologica e dall’adozione da parte di una disfunzionale famiglia svizzera, sviluppa un disordine mentale che lo porta a sentirsi “sbagliato” nella società che lo circonda.

La narrazione comincia con l’infanzia dell’artista, caratterizzata da violenza e sofferenza, proseguendo con il suo ingresso in Italia dalla Svizzera. Qui si sente fuori posto, non parla la lingua, conosce fame e miseria, si ritrova a vivere come le bestie di cui dipingerà: solo, in una stalla. Forse è in questo momento che Ligabue ha realizzato che gli animali possono essere più umani degli uomini stessi, che riconosce loro un rispetto che non darà nemmeno alla sua persona. Nel momento in cui sembra più miserabile riacquista la sua umanità attraverso il riconoscimento altrui, l’alterità gli dona una nuova esistenza, qui si vede per ciò che realmente è, e lo ripeterà più volte: un artista.

Da questo punto in poi si inserisce la carriera del pittore, dalla difficoltà per far accettare la sua arte, al disagio intestino per superare il desiderio di nascondersi dentro di sé.

L’interpretazione di Germano in questo senso è magistrale: la camminata ingobbita e claudicante, le urla e la rabbia nel momento della creazione artistica, la parlata a metà tra il tedesco e l’italiano pressoché incomprensibile, la disperazione mentre spiuma un cuscino, sono tutti elementi curati in ogni singolo dettaglio, senza mai sembrare grotteschi o caricaturali. Ma è nel rapporto con gli animali che lo spettatore può apprezzare al massimo l’interpretazione dell’attore: nell’abbraccio con l’asino, nella domanda alla scultura del leone – “noi non abbiamo mica bisogno di nessuno, vero?” – si percepisce lo strazio di un uomo solo, non compreso e allontanato dal mondo, un dolore che parte dallo stomaco, una morsa che toglie il respiro e lega empaticamente lo spettatore a quel pover’uomo che sembra più un bambino che un adulto.

A rendere questa visione infantile del mondo concorre anche il paesaggio. Diritti ricrea un Emilia ideale, distese di campi e alberi che sembrano provenire proprio dalla fantasia di un bambino, i colori caldi e avvolgenti, la freschezza di un’Italia che non esiste più, e forse non è mai esistita se non nella mente di Toni, l’unico appiglio di ordine in una mente disordinata.

La commiserazione e l’immedesimazione si attenuano quando finalmente arriva il momento del successo. A questo punto appare un uomo reale, lontano dalla quasi forzata nuvola di disgrazie che sembra inseguire personaggi come lui. Ci si scontra con un uomo vero, il quale è riuscito persino nel suo sogno di possedere una motocicletta, e quell’empatia che si era creata con il Ligabue disadattato e incompreso sfuma nei confronti dell’artista famoso. Ma è questo che vuole il regista, non creare pietà, ma dipingere una vita, e nella vita non sempre è tutto giusto o sbagliato, nero o bianco. Vita che non traspare dai personaggi che circondano Toni, i quali appaiono piatti, statici, costituendo così un limite della pellicola, insieme con la scarsa sottolineatura che si da al contesto storico, ossia il fascismo e l’avvicinarsi della guerra.

L’uscita del film si colloca, tra l’altro, in un momento particolare, a pochi giorni dalla morte di Flavio Bucci, lo storico Ligabue della tv italiana del 1977, con il quale Elio Germano si misura senza sfigurare, interpretando quella che definisce come una “guerra dentro e fuori, per affermare la propria presenza”, un messaggio più che attuale nell’epoca dell’omologazione e dell’uniformità.

Ligabue voleva nascondersi dal mondo, ma non l’ha fatto, si è esposto nella sua totalità e proprio per questo ha segnato la storia artistica italiana, perché “Ligabue non può non scuoterci! Non convincerci!”.

Martina Di Paolantonio
Dal 1999 faccio concorrenza all'agenzia di promozione turistica abruzzese, nel tempo libero mi lamento per qualsiasi cosa.

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