Del: 31 Marzo 2020 Di: Riccardo Sozzi Commenti: 0

Nel 1987 Jean-Jacques Annaud, regista francese noto per i suoi soggetti complessi e mai banali, dediti alla ricerca di sé stessi, decide di puntare la telecamera su un paio di orsi. Il risultato è un’opera delicata ma sofisticata, che apre gli occhi senza far gridare alla mistificazione.

«Esiste un’emozione più forte che quella di uccidere, quella di lasciar vivere». La citazione non è di un attore, né di Annaud, ma dell’autore del libro da cui la storia è tratta, James Oliver Curwood. Nel 1916 uscì il libro The Grizzly King, un romanzo che prendeva spunto dalle avventure dello stesso Curwood che in una delle sue battute di caccia venne avvicinato, disarmato, da un orso di notevoli dimensioni ma che, per motivi ignoti allo stesso, non lo toccò neanche risparmiandogli la vita. 

Annaud negli anni ‘80 venne a conoscenza della storia e decise di riesaminare la favola di Curwood in chiave naturalistica. Soggetto della pellicola non sono infatti i cacciatori bensì gli orsi, un maschio adulto ed un cucciolo. Gli esseri umani presenti fungono da antagonisti di contorno, personaggi esterni alla storia la cui trama si inserisce in quella degli orsi. Pochi dialoghi ed una osservazione a tutto campo degli animali potrebbero far storcere il naso, ma qui sta il genio di Annaud.

Non gira un documentario ma assegna agli animali (tutti ammaestrati) dei ruoli ben precisi, senza tuttavia scadere nella banale antropomorfizzazione.

Per tutta la durata del film gli orsi fanno gli orsi e, anche se qua e là sono stati inseriti forzatamente i versi di un neonato, non si percepisce mai di avere di fronte comportamenti costruiti o rappresentativi degli atteggiamenti tipici dell’essere umano. 

Ma cosa racconta questa favola moderna? Una storia in realtà molto semplice ma non scontata o banale. Un cucciolo d’orso, rimasto orfano a causa della morte accidentale della madre, riesce a legarsi ad un maschio adulto che se ne prenderà cura accogliendolo sotto la sua ala protettrice, il tutto mentre un gruppo di cacciatori (guidato da Tchéky Karyo, attore allora semisconosciuto, come richiesto specificamente da Annaud che voleva la totale attenzione dello spettatore sugli orsi) cerca di uccidere l’adulto. 

Facile sarebbe a questo punto una immediata associazione con pellicole di stampo disneyano, ma dalle quali il film si discosta per la grande profondità con cui il tema viene trattato e con il modo in cui la macchina da presa ci mostra la costruzione del rapporto tra i due animali, difficile all’inizio ma che con il passare dei minuti si trasforma in una amicizia fraterna. Lo ripetiamo, gli orsi fanno gli orsi, per cui ogni azione viene concepita in uno studio accuratissimo del comportamento degli animali, che infatti sul set agiscono con una spontaneità che compensa benissimo le direttive imposte dal copione e provocate dagli addestratori. 

Anche se in quest’ottica il film è molto vulnerabile a critiche volte a dimostrarne la non veridicità ed una certa mistificazione della realtà, prostrata ad un messaggio di fratellanza che in natura spesso non si osserva (noti sono i casi in cui gli orsi adulti uccidono i cuccioli per evitare futuri contendenti ed invasioni del proprio territorio), Annaud è molto bravo nel non esagerare le dinamiche del rapporto tra gli animali, e nel dare particolare risalto invece ad una scena che ripercorre quella narrata da Curwood, quando l’adulto si ritrova faccia a faccia col cacciatore, interpretato da Karyo, senza tuttavia ucciderlo.

Un messaggio molto chiaro di come in natura sebbene si osservino comportamenti spietati, questi non sono mai conditi dalla cattiveria fine a sé stessa che spesso si riscontra al contrario negli esseri umani. Un attacco ha infatti sempre uno scopo ben preciso, che sia per nutrirsi o semplice autodifesa di fronte a comportamenti ambigui e potenzialmente pericolosi, come l’invasione del proprio territorio da parte di un altro animale predatore, quale l’essere umano è.

Di fronte ad un uomo prostrato e indifeso, come la scena lo dipinge, l’animale semplicemente retrocede, consapevole di non avere di fronte una minaccia. 

In conclusione la storia di Annaud, che nel 1988 ricevette il plauso della critica internazionale insieme al Premio César per la miglior regia ed una nomination agli Oscar per il miglior montaggio, rimane ad oggi un piccolo capolavoro del cinema di riferimento, capace con la realtà e la spontaneità degli orsi – attori di regalare un’ora e mezza di intrattenimento leggero ma non banale, emozioni sincere ma non esagerate. Da vedere, per gli amanti del genere e non. 

Riccardo Sozzi
Da buon scienziato politico mi faccio sempre tante domande, troppe forse. Scrivo di tutto e di più, perché ogni storia merita di essere raccontata. γνῶθι σαυτόν

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