
Il titolo è esemplificativo: cacciatori. Di questo si parla. La serie tv Hunters, ideata e scritta da David Weil è ambientata nella New York degli anni ’70 e i protagonisti sono dei veri e propri cacciatori di nazisti, figure inquisitorie inviate dall’affascinante e misterioso Meyer Offerman (un Al Pacino in forma), ebreo e sopravvissuto al lager nazista di Auschwitz-Birkenau.
Il piano consiste nel formare un gruppo di giudei e non, privi di ogni compassione, con lo scopo di cacciare i “migliaia” di nazisti rintanati negli Stati Uniti dopo il fuggi-fuggi avvenuto a guerra terminata; una caccia (hunt) per l’appunto, che rende i Nostri dei cacciatori (hunters).
La loro è una strategia ben mirata: cercano gli alias che gli ex generali nazisti usano per nascondersi come scarafaggi nella società statunitense e li accerchiano, li minacciano, li uccidono…
Questo è il problema però. Uccidere: sì o no?
Da una parte significa effettivamente eliminare una pedina dal campo di gioco, significa arrivare al “Re” il più velocemente possibile, dall’altra serpeggia tra i componenti del gruppo l’idea secondo cui nessuno è in grado di essere tanto brutale quanto lo sono stati i nazisti; proprio per questo le scene di tortura ed esecuzione dei fanatici del regime hitleriano sono al limite della pietà, piene di ambiguità e divisioni ideologiche dettate dal protagonista Jonah Heidelbaum (Logan Lerman), il quale è immerso in un limbo confusionario, oscillando tra perdono e giustizia diretta. I suoi goffi tentativi di accostarsi al concetto di “vendetta ebraica” prolungano quella che è un’angosciante sensazione di insicurezza: essa è emanata in particolar modo da una Grande Mela violenta e litigiosa, già raccontata in passato da grandi nomi (Scorsese è il punto di riferimento); ma determinata anche dal maestro Meyer, quasi una figura spirituale, quasi una rabbino e così poco chiaro nelle sue azioni da rasentare l’incoerenza.
Perfetta, dunque, è l’accoppiata formata da Logan Lerman e Al Pacino: due anime legate ma distanti. La prima appartiene a un giovane gracilino con il fascino del ragazzo nerd appassionato di fumetti, mentre la seconda a un anziano sopravvissuto alla brutalità dei lager, intoccabile e cantato come eroe indiscusso.
È sempre New York a fare da sfondo a migliaia di protagonisti e antagonisti: ci sono i nazi-statunitensi filo germanici che vogliono istituire un vero e proprio Quarto Reich, eliminando la “feccia dell’umanità” con una bomba biologica; questi lottano contro gli Hunters di Offerman ed entrambi sono nel mirino dell’investigatrice Millie Morris (Jerrika Hinton), la quale diviene il simbolo non solo della giustizia federale, ma anche dell’emarginazione afroamericana, fenomeno fomentato dagli spiriti di un altro tipo di razzismo, proprio dell’americano medio contro il nero, invasore e stupratore. A questa fitta rete di intrighi si aggiungono incongruenze interne al gruppo dei nazisti, al gruppo degli Hunters e anche al gruppo della polizia. Nasce dunque una lotta di tutti contro tutti, un viscerale odio e una conseguente diffidenza verso il vicino: tutti hanno segreti, tutti hanno il proprio capro espiatorio, tutti sono figli della società contemporanea e soggetti alla teoria arendtiana della banalità del male.
Proprio come la Germania nazista, anche gli Stati Uniti liberali durante la Guerra Fredda vengono dipinti come un mondo aggressivo e controverso, razzista e oppressore. Entrambe queste nazioni, infatti, ghettizzano le minoranze: la prima segrega gli ebrei, la seconda gli afroamericani. A poco serve il lavoro dei cacciatori se non a mozzare qualche testa: gli oppressori sono ovunque, possono essere anche tra noi ed è effettivamente impossibile eliminarli. È proprio qui che risiede la brillante fantasia complottista di Hunters: i nazisti si insinuano nella vita politica, sociale e culturale degli USA. Si tratta, dunque, di un paese razzista perché ha scelto di esserlo quando ha permesso a questi criminali di inserirsi tra gli scienziati della NASA – che ha portato gli americani sulla Luna – al tavolo dei ministri e consiglieri del presidente e così via.
La caccia continua, questo è certo, ma la capacità dell’uomo di infiltrarsi in ogni cultura e società è simile a quella del parassita: penetra indisturbato senza palesarsi e vaga nelle ideologie influenzando il resto della massa; da qui nasce il male sociale, l’odio ingiustificato, la “banalità del male” di Hannah Arendt.
Rappresentando questo inquietante aspetto della società contemporanea, David Weil decide di utilizzare una violenza ingiustificata, grottesca a tratti, tarantiniana per eccellenza. Auschwitz-Birkenau in questo modo è un campo di gioco perverso, utilizzato per raccontare fittizie brutalità compiute dai nazisti sui reclusi; si tratta di opere disumane per eccellenza, che vanno oltre l’immaginazione, ma proprio per questo utili alla trama; l’autore offre allo spettatore una visione vendicativa, guidata dalla legge del taglione.
Proprio per questo la denuncia lanciata dall’Auschwitz Memorial, che ritiene opportuno ricordare la Shoah rispettando la storia, è pressoché inutile: non si tratta di raccontare eventi veri o falsi poiché Hunters racconta una vicenda che tocca il fantascientifico. Guardando la serie ci si rende conto di quale sia realmente il suo intento, che certamente non è quello di onorare le vittime dell’olocausto, né tantomeno quello di mostrare un rapporto storiografico accurato.
L’obiettivo di Hunters è quello di utilizzare il passato per raccontare avvenimenti sicuramente fittizi, ma che possono sembrare verosimili e contemporanei.
È importante perciò concentrarsi su quella che è in realtà la visione dell’odio generato dalla furia nazista: una catena che genera altro rancore, dall’ebreo al nazista, dal bianco al nero, dal povero al ricco. E dunque è inutile pensarci su: i nazisti sono tra noi. Che la caccia abbia inizio.