In un periodo in cui siamo obbligati a restare in casa con mille domande e dubbi che ci frullano nella testa, il cinema è uno dei pochi strumenti in grado di farci evadere e di innescare riflessioni sulla vita, nella sua totalità e dinamicità, nonostante ora ci sembri così immobile. Ingmar Bergman, celebre regista svedese, ha impostato tutti i suoi lavori cinematografici proprio sul valore dell’esistenza, sulla sua complessità e sulla morte.
Comincia a lavorare nel mondo del teatro, che non abbandonerà mai, per poi concentrarsi sulcinema verso la seconda metà degli anni ’40, raggiungendo il successo internazionale nel 1957 con due dei suoi più grandiosi film: Il settimo sigillo e Il posto delle fragole. Il tema che li unisce è la morte, affrontata però nelle due pellicole in modo molto diverso.
Nel primo film si presenta personificata, in modo democratico e casuale, a un cavaliere che torna a casa dopo una crociata in un periodo di peste. È pronta a prenderlo con sé, ma il ragazzo riesce a sfidarla a una partita di scacchi e rimandare così la sua dipartita. Consapevole che la morte lo sta aspettando al varco, affronta il viaggio di ritorno in maniera più consapevole e insieme ai suoi compagni di viaggio comincia una riflessione sul vero valore della vita.
Capisce che la morte è madre dei nostri limiti e, prendendo coscienza di essa, si rende conto del privilegio dell’esistenza e della sua bellissima imperfezione.
Decide così di godersi le piccole cose, di aiutare come può chi ne ha bisogno e stare con persone a cui vuole bene, finché la partita con la morte non giungerà al termine; un match che però capisce di non poter vincere, ed è per questo che alla fine, pienamente consapevole di sé, si sente il vero vincitore.
Il posto delle fragole, invece, racconta il viaggio di un anziano professore chiamato a ritirare un premio per la sua gloriosa carriera. Affronta il tragitto con la nuora, la quale lo accompagnerà, oltre che in un percorso fisico, anche in un’esperienza intima e mentale dove ripercorrerà tutta la sua vita. Il protagonista sente che la morte è vicina e ricalcare i luoghi della sua giovinezza riporta a galla le decisioni prese, le colpe, gli inganni e gli errori commessi. Il viaggio è quindi un’occasione per togliersi tutte le maschere che ha dovuto indossare, giudicarsi senza più filtri e rendersi conto di quello che veramente è importante.
Anche dopo il plauso della critica mondiale, Bergman non si ferma e continua, tramite i suoi lavori, a indagare l’animo umano e, dopo quasi dieci anni, conclude l’opera che racchiude meglio il suo pensiero: Persona.
Elisabeth, un’attrice famosa, mentre recita entra in una crisi profonda e decide di smettere di parlare. Una scelta consapevole che la porterà ad affrontare un percorso clinico al fianco dell’infermiera Alma. Le due decideranno di trascorrere un periodo di riposo e recupero in una casa sull’isola di Faro, lontano da tutto e da tutti. Alma si apre totalmente con la sua paziente, la quale invece, restando muta, si allontana dai problemi che la stanno pian piano distruggendo.
Entrambe, in modi diversi, decidono di spogliarsi: una lo fa liberandosi di tutti i segreti mai raccontati, l’altra rinunciando ad impersonare una parte, ribellandosi quindi a un sistema borghese che obbliga a omologarsi e a non esprimere la propria identità. Vivono un confronto talmente profondo da arrivare a fondere le loro personalità, a unire le proprie anime, finché un segreto non viene rivelato.
…Tu insegui un sogno disperato Elisabeth, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere; essere inogni istante cosciente di te e vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri daciò che sei per te stessa…Questo ti provoca un senso di vertigine per il timore di essere scoperta, messa a nudo, smascherata, poiché ogni parola è menzogna, ogni sorriso una smorfia, ogni gesto falsità…
La struttura cinematografica di Bergman è basata su personaggi veri, fragili, che non hanno paura di mostrare le loro debolezze, le loro perplessità davanti ad una vita così complessa, misteriosa e difficile da affrontare. Oltre a questo i suoi tratti distintivi sono una regia pulita ed essenziale, una fotografia che gestisce due colori in infiniti modi diversi, scenografie scarne che danno totalmente spazio alle vite dei protagonisti.
Scene surreali che vanno oltre il cinema accompagnano la narrazione perché è impossibile raccontare una storia in maniera classica se la vita stessa sembra essere senza senso. Immagini senza nessuna logica, senza una possibile interpretazione: l’intento è farci capire che non potremo mai capire veramente chi siamo, cogliere il nostro scopo.
Il centro di tutto è quindi un costante dubbio che ci accompagna in un’esistenza imperfetta, priva di certezze, ma il messaggio di Bergman è: se si è consapevoli di questo, allora forse si è capito tutto.
Forse si diventerebbe persone migliori se ci si accontentasse di essere come si è.
Ingmar Bergman ha semplicemente raccontato se stesso attraverso vari mezzi comunicativi. È riuscito a portare in scena i temi contro cui ognuno lotta tutti i giorni: il terrore della morte, i paradossi religiosi, i rimpianti di una vita che non si può riavvolgere, l’estremo desiderio di trovare risposte a domande incomprensibili. In un periodo in cui tutto attorno a noi è fermo, il cinema può prenderci per mano e accompagnarci in un viaggio interiore che sempre meno si intraprende, e qualsiasi film di questo prestigioso regista è perfetto per iniziarlo.
Articolo di Federico Metri