La donna amata è sempre stata al centro delle liriche dei poeti. Mezzo per raggiungere Dio, simbolo della poesia, destinataria di struggenti canzoni d’amore, protagonista delle notti insonni raccontate in pagine, tele, girati senza fine. Quasi sempre, la sua compagnia o la sua vicinanza portano a una condizione migliore per il soggetto narrante, sia questa emotiva, fisica, intellettuale o spirituale. È così anche per Martin Eden: l’incontro con Elena è destinato a cambiargli la vita.
Martin Eden è il film di Pietro Marcello tratto dall’omonimo romanzo di Jack London, ma che pochissimo ha a che fare con la narrazione originale, tanto da creare un’ambientazione nuova e da rifuggire ad analisi costruite in parallelo tra il testo filmico e quello letterario.
Il nome e la professione restano: Martin Eden (uno straordinario Luca Marinelli) è oggi un marinaio napoletano (o, più generalmente, del mezzogiorno italiano) che si muove in una non ben definita epoca novecentesca tra battaglie socialiste, ricerca dell’individualismo e voglia di affermazione e riscatto personale.
Il motore della sua intera vicenda è l’amore per Elena Orsini (Jessica Cressy), giovane di buona famiglia che gli apre le porte del mondo della cultura.
Torna quindi il tema comune alla lirica di ogni luogo e ogni tempo: l’amore che ci cambia, ci migliora, ci spinge a inseguire i nostri sogni.
Martin inizia a leggere, scopre la filosofia, prende coscienza del suo basso livello culturale e fa di tutto per migliorarsi, lo dice ad Elena: «Io voglio essere come voi». Vuole diventare uno scrittore e inizia a lavorare instancabilmente in quella direzione.
Se non fosse che, in questo caso, l’amata non è partecipe del suo moto migliorativo: Elena è sempre pronta a rimarcare la distanza socio-culturale che li divide, gli parla con un tono a tratti paternalistico, nonostante gli continui a professare amore e devozione. La parabola di vita di Martin, quindi, non è idilliaca: si trova a combattere contro una società che non vuole saperne di ciò che ha da dire, gli manca anche l’incondizionato supporto che cerca in quella che per lui è la sua unica ragione di vita, la donna che gli ha aperto gli occhi.
Martin Eden, marinaio, di estrazione popolare bassa se non infima, scrive di ciò che vede intorno a sé: altri marinai, operai, poveracci, parla di desolazione, disperazione e morte, non scrive di lieti fini perché non ne conosce. Ma tutto questo è rifiutato sia da chi è a lui vicino (la sorella stessa gli dice che non avrebbe mai letto un suo racconto per svago, perché di svagante non c’era nulla), sia da quel gruppo di elitari dove lui vorrebbe entrare, di cui Elena rappresenta l’ipocrisia di fondo.
Prontissimi ad aprire le porte a chi ha salvato la vita di uno di loro, ma solo per mantenere le apparenze, perché “così si fa”: perché, nel momento in cui Martin fa la scarpetta nel piatto, lo si guarda torvo; quando scrive del disagio dei quartieri popolari, gli si chiede di cambiare argomento; quando litiga accaldato di politica, Elena allontana la mano dalla sua.
Il vero punto di svolta è l’incontro con Russ Brissenden (Carlo Cecchi), intellettuale che lo avvicina ai circoli socialisti e che, come scrive Eddie Bertozzi, “lo sprona a resistere alle sirene borghesi che tentano di piegare il suo genio artistico alla mediocrità del gusto comune”. Tappa fondamentale questa, che fa arroccare Martin sempre più in una sorta di individualismo anarcoide, memore della filosofia di Herbet Spencer, motivi che gli daranno la forza intellettuale di arrivare al successo.
Il percorso di Martin Eden, infatti, segue in realtà lo schema della favola a lieto fine, dell’homo faber fortunae suae
Lo vediamo, anni dopo la rottura con Elena, acclamato dal pubblico, libri e libri pubblicati alle spalle, invitato nelle Università, accolto finalmente e apprezzato da tutti. Ma piegato nello spirito– o, meglio, irritato, se non proprio irato.
La sua crescita culturale gli ha in realtà rivelato la bruttezza della società in cui vive, lo lascia disincantato, disilluso, arrabbiato con chiunque gli sia intorno. La sua stessa immagine si rovina, specchio di quel malessere dell’animo che esplode quando Elena torna da lui: è la dimostrazione, per Martin, che tutto è vuoto di significato.
Perché lui sa che il marinaio degli inizi è ancora lo scrittore del presente: per quanto scartavetrato dagli eventi della vita e dalla conoscenza. Ma ad Elena, rappresentante dell’élite culturale di cui lui voleva così tenacemente far parte, non importa del contenuto, non importa che lo spirito del marinaio e quello dello scrittore siano sostanzialmente gli stessi: conta solo l’involucro che funge da apparenza.
Un racconto audace ma narrato quasi con delicatezza, ben pesato (tranne nell’ultima parte un po’ frettolosa) e interamente retto sullo sguardo magnetico di Marinelli, che ha per questo portato a casa la Coppa Volpi a Venezia76. Una vicenda lontana che viene avvicinata, la storia di un uomo che resta sempre attuale e che si chiude con la più grande decisione finale: riconsegnarsi al mare.