Del: 4 Marzo 2020 Di: Redazione Commenti: 0
Summit di Madrid: perché è fallito?

“How dare you?”: è diventato celebre proprio per questa accusa, che esprime il coraggio di affrontare le élite e al tempo stesso la paura che il destino del nostro pianeta sia già scritto, il discorso della giovane ambientalista svedese Greta Thumberg, in occasione del Summit sul clima di New York, tenutosi lo scorso settembre.

È stata un’assemblea delle Nazioni Unite voluta dal segretario generale Antonio Guterres, al fine di avere un incontro preliminare in vista del più importante appuntamento, il Cop25, svoltosi a Madrid per circa due settimane lo scorso dicembre. In questa occasione, 196 paesi si sono riuniti per discutere e correggere le proprie proposte, al fine di raggiungere più velocemente gli obiettivi firmati durante il Cop21 di Parigi del 2015.

Sembra però che le sorti del nostro pianeta dovranno aspettare ancora, dal momento che gli Stati non sono riusciti ad arrivare ad una decisione comune e di conseguenza il Cop25 è fallito.

I negoziati si sono aperti in un clima teso e poco propositivo: è mancato il supporto di grandi Paesi, come gli Stati Uniti, l’Australia e il Brasile, responsabili di una grande parte delle emissioni di CO2, così come l’apertura ad una collaborazione più incisiva da parte di altri, come l’India, la Cina e Arabia Saudita.

Pomo della discordia è stata la revisione dell’art.6 del Summit di Parigi, per regolamentare il mercato dei “Carbon Credits”, pratica largamente diffusa, nata in concomitanza del Protocollo di Kyoto (1997), che rende possibile per i Paesi più inquinanti acquistare da quelli più virtuosi, per intenderci, Paesi che invece hanno limitato le loro emissioni al di sotto del cap annuale, dei veri e propri diritti di emissione. Un gioco, questo, che è essenzialmente a somma zero per l’ambiente. 

Il Summit si è quindi concluso con un nulla di fatto: i Paesi hanno fatto valere l’egoismo e la mera logica economica, sacrificando la scienza e il destino del nostro pianeta.

Ogni futura decisione è slittata al 2020, quando a Glasgow, in Scozia, si terrà il prossimo Summit per il clima. Per il momento continuano ad essere vigenti gli accordi firmati da 195 paesi al Cop21, nonostante defezioni importanti, come quella degli Stati Uniti, fortemente voluta dal presidente Donald Trump, da sempre poco attento alle tematiche ambientali; emblematico il suo twitt ironico “Agli Stati Uniti farebbe comodo un po’ di riscaldamento globale”, postato in occasione della morsa di gelo che aveva investito gli USA alla fine del 2017.

Obiettivi, quelli firmati al Cop di Parigi, che, secondo un nutrito gruppo di esperti, sono comunque troppo poco ambiziosi e sono stati presi troppo tardi per scongiurare l’arrivo al tanto temuto punto di non ritorno.

Oltre alla mancanza di un calendario preciso per quanto riguarda la diminuzione, progressiva ma continua, delle emissioni, non basterebbe infatti mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1.5C° (al momento siamo a quota +0.8C°). Anche se gli accordi venissero rispettati, il ritmo con cui vengono emessi i gas serra (principalmente CO2 e metano) porterebbe comunque a superare la soglia dei 2/3C° in più rispetto alla temperatura globale pre-industriale. 

Superare questa soglia significherebbe inceppare definitivamente e in modo irreversibile il meccanismo termoregolatore della terra.

Ne deriverebbe una concatenazione di disastri naturali, tra i quali siccità e inondazioni che, oltre a distruggere le biodiversità, avrebbero un impatto fatale anche sull’uomo.

In attesa di una più seria presa di coscienza da parte delle élite al potere, i giovani di tutto il mondo si fanno portavoce di un rinnovato senso comune riguardo l’ambiente, marciando pacificamente nelle piazze al grido di “Friday’s for future”.

Mentre la calotta polare si scioglie a velocità record, minacciando, oltre che la sopravvivenza di molte specie endogene, anche quella dei tanti Stati insulari, ai quali potrebbe toccare la stessa sorte di Atlantide, il 2020 si apre con devastanti incendi in Australia a causa dell’estate più calda mai registrata, con punte di 49C°, e dell’intensa siccità.

Moniti, questi, da parte della natura: forse ci ricorda che non perdonerà a lungo la nostra noncuranza.

Articolo di Federica Braga

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